Rientro al monastero
Si termina la colletta di offerte prima che suonino le 11 e si ha fretta di ritornare sui propri passi. Non appena oltrepassata la cinta del monastero, ci si libera con un gesto del cappello di paglia. Neanche giunti alla porta della sala di meditazione che il capo gruppo intona il sūtra dell'”Offerta agli spiriti affamati”. E gli altri tutti, all’unisono, si sistemano davanti alla statua di Idaten, che troneggia sulla soglia della cucina, a cui rendono grazie per aver avuto successo nella colletta delle offerte.
Dopo di che si disperdono, non senza prima aver pregato affinché sia riconosciuto un merito infinito a tutti i donatori. Il grano di riso, la monetina che ognuno ha ricevuto nel corso della giornata, lungi dal diventare proprietà personale, rientrano nel raccolto comune e un quaderno specifico li registra e li contabilizza di modo che ciò che ognuno ha ricevuto serve per la sussistenza di tutti, rispettando il comandamento di uguaglianza per i pasti.
In questo modo si rivelano l’importanza e il significato della questua. Per gli abitanti della città, fare la questua è un’occasione per staccarsi dal possesso; per i monaci, sollecitare le offerte è più che cercare di ottenere un bene materiale, è abbandonarsi a un esercizio di pazienza con cui si prendono due piccioni con una fava: sopportare le avversità, facendo buon uso di se stessi. È un esercizio perfetto nella misura in cui, utile per se stessi, serve agli altri e mantiene una felice armonia.
Satō Giei
(1920-1967)
Fonte:
Satō Giei, Journal d’un apprenti moine zen (Unsui nikki, 1966),
traduit du japonais par Roger Mennesson, Arles, Philippe Picquier, 2010, pp. 66-67.
Edizione giapponese pubblicata da The institute for Zen studies nel 1972.
❖Mia traduzione “di servizio” dall’edizione in lingua francese.
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