E così anche la seconda edizione di Japan SunDays è archiviata. Finita ormai anche la stanchezza. Caduta l’adrenalina. Chiuse le scatole e sistemati gli oggetti. Ringraziati pubblico e collaboratori.
Cosa mi resta dentro e negli occhi?
Brani di favole e il prode Momotarō, la danza ieratica di una danzatrice e il canto arcano del nō, peonie e tulipani come macchie di colore nelle composizioni di ikebana, tratti precisi di pennello a dipingere il mondo con l’inchiostro, volti dagli occhi grandi nel disegno dei manga, preziosi fiori di stoffe multicolori, la danza energica e circolare dei maestri di aikidō, giochi tradizionali e sfide fra kendama e aquiloni. Ancora. L’elegante linguaggio del kimono, l’arte raffinata della calligrafia che nasce da un sottile pennello su carta preziosa a tracciare versi antichi e l’energia di un maestro fra grandi macchie di inchiostro che sono kanji che sono idee che sono suoni, l’energia contagiosa dei tamburi, la precisione e il dinamismo degli scontri nel kendō, i video dei paesaggi del Giappone, le fotografie di una Tōkyō che riconosco in uno sguardo interessante e nuovo. Poi. Le chiacchiere diffuse, i volti sorridenti, le nostre parole a raccontare una città, i bentō aperti con famelica curiosità e il té verde. Il nostro impegno e la convinzione di aver fatto al meglio delle nostre possibilità, di aver fatto bene. Elaborando già nuove idee, nuovi progetti.
Dall’alto un patlabor osservava. Non mi sembrava poi così distante.