Japonismes. Letture per farci compagnia. Il giapponismo di uno studioso…

Ikkei, Una locomotiva a vapore lungo la ferrovia a Takanawa, 1872.

Come cominciare e da dove? Dal lato personale o dal dato storico? Dalla storia o da chi la scrive? Da Townsend Harris, ritto davanti a tempio di Gyokuzenji nel villaggio di pescatori di Kakisaki, nel tardo pomeriggio di giovedì 4 settembre 1856? O dall’autore di questo libro, appoggiato al parapetto del Philippine Mail nel porto di Yokohama durante la piovosa mattina del 16 settembre 1974? Harris, gli occhi rivolti alla baia di Shimoda circondata da colline a punta simili a mammelle (e infatti così si chiamano in giapponese), osserva la fregata San Jacinto ammainare la bandiera in segno di saluto e poi dirigersi verso il mare aperto tra sbuffi di fumo. L’autore contempla un mondo nebbioso di docks grigi, camion, elevatori a forca e gru gigantesche, e lamenta tra sé e sé la rapida distruzione della veduta, simile a un depliant turistico eppure così bella, del monte Fuji, un cono ricoperto di neve contro il cielo azzurro, incorniciato da rami scintillanti di fiori di ciliegio. Harris entra nel tempio, la sua nuova casa, e apre il diario sul quale, solo pochi giorni prima, aveva annotato trionfante: sarò il primo emissario di una potenza civile a risiedere in Giappone. Adesso il suo stato d’animo è più sobrio: Pensieri cupi – inquietanti presagi di cambiamento – Questo è sicuramente il principio della fine. Domanda: sarà davvero per il bene del Giappone?

Incontrerò queste parole soltanto verso la fine del 1975, al mio ritorno in patria dopo un anno di insegnamento presso due università giapponesi. La lettura del diario di Harris rientrava in un progetto più vasto. Dal giorno stesso in cui avevo rimesso piede negli Stati Uniti, ero stato afferrato da un senso di scontentezza, di disagio, di spaesamento. Casa mia non sembrava più la stessa dopo il mio soggiorno in Asia. Era una sensazione diversa rispetto a quando, anni addietro, ero tornato dall’Europa. In Giappone mi era accaduto qualcosa di misterioso, e io, nel tentativo di venirne a capo e di scoprire perché il mio sguardo e la mia mente fossero evidentemente cambiati e mi sentissi estraneo alla mia stessa cultura, mi ero rivolto (da bravo professore universitario) alla mia propria disciplina, la storia, e avevo incominciato a studiare le testimonianze scritte di altri americani che avevano soggiornato in Giappone prima di me. Harris sembrava particolarmente importante, perché era stato il primo americano a risiedere in Giappone legalmente. Coloro che lo avevano preceduto (alcuni naufraghi, un gruppo di marinai che aveva disertato da una baleniera e Ranald Macdonald, il meticcio chinook che nel 1848 si era spinto fino all’isola di Hokkaido nella convinzione che gli indiani d’America provenissero dal Giappone) non potevano essere considerati propriamente residenti: erano stati fatti prigionieri dalle autorità, deportati a Nagasaki e colà detenuti in attesa di essere rimpatriati su qualche nave olandese di passaggio a Deshima, l’unica concessione commerciale occidentale esistente in Giappone durante i duecentocinquanta anni di autoimposto isolamento. […]

Leggere gli articoli, i libri, le agende, i diari e le lettere di questi uomini e queste donne fu per me come penetrare in un Giappone in cui, mentre il paesaggio fisico, e in particolare quello delle aree urbane, era ormai irriconoscibile, il paesaggio umano (gli atteggiamenti e i modelli di comportamento sociali, religiosi ed estetici della gente) era sorprendentemente simile a quello della mia stessa esperienza. Le scoperte, le meraviglie, le gioie, le difficoltà, le bellezze e gli equivoci che avevo sperimentato io come insegnante e come viaggiatore erano state vissute in maniera molto simile un secolo prima dai miei predecessori. Nonostante il loro pervicace senso di superiorità culturale, molti di quei primi viaggiatori si erano posti, anche se di solito in maniera meno consapevole, i medesimi interrogativi che assillavano Harris: le nostre capacità, i nostri valori, le nostre idee sono davvero utili per questa antichissima cultura? Introducendo idee e pratiche moderne, non finiremo col distruggere qualcosa di molto prezioso? Invece, la domanda speculare, quella che a me interessava di più, il problema non già dell’influenza che noi esercitiamo su un’altra cultura ma di quella che essa esercita su di noi, non sembrava rientrare nella loro consapevolezza. O almeno, nessuno di essi l’aveva mai espresso in parole. […]

Questo libro, dunque: dove ha inizio? In molti luoghi e momenti diversi: con l’autore che, seduto alla scrivania davanti ai moduli versi delle borse di studio Fulbright, decide di scrivere “Giappone” invece di “Italia”, nello spazio contrassegnato “paese richiesto”. A Kyōto, nella storica locanda Tawaraya, con le sue vasche da bagno in legno, i corridoi bui, le cameriere in kimono, le squisite decorazioni floreali che paiono appartenere alla coreografia di un film di Kurosawa. Nel giardino roccioso del Ryoanji, dove ogni tentativo di contemplazione è interrotto da una voce stridula diffusa senza sosta dagli altoparlanti, la quale ti spiega verbosamente come quel giardino sia ineffabile. Durante il delizioso pranzo preparato e servito con grande delicatezza da tre giganteschi lottatori di sumo timidi come fanciulle. Durante le visite a decine (no, a centinaia, a migliaia) di templi, santuari, castelli, cimiteri, villaggi di vasai e sushi restaurant (dove, benché si veda benissimo che stai apprezzando quel che hai nel piatto, trovi sempre qualcuno che domanda: “A lei piace il pesce crudo?”). Durante una rappresentazione di teatro nō, quando la noia per il ritmo lentissimo si trasforma all’improvviso in amore ardente per tutto ciò che è giapponese.

 

Robert A. Rosenstone

(Montreal, 1936)

 

Traduzione dall’americano di Adriana Bottini.

Da: Lo specchio e il santuario. Storie di americani nel Giappone Meiji  

(Mirror in the Shrine, 1988), Milano, Feltrinelli, 2001, pp.  17-20.

 

📖📚📖

Il giapponismo, l’esotismo, sì, possono colpire tutti, anche lo storico più serio. Facile cadere nella sua trappola. Ti avvince prima ancora che tu non te ne renda conto. Questa pagina, del professore emerito di storia all’Università della California Robert Rosenstone, ne è un tipico esempio. Il suo resta comunque un libro molto ben documentato, ed estremamente piacevole anche per il pubblico meno esperto, su tre personaggi esemplari di espatriati nel Giappone di epoca Meiji: il naturalismo Edward Morse, lo scrittore e giornalista Lafcadio Hearn e il missionario William Elliot Griffis.