E’ subito dall’altra parte, il Giappone.
Oltre i nastri fermi del recupero bagagli (quando sia arriva nell’immenso salone, sono già stati raggruppati e ci attendono).
Oltre i banchi della dogana e i guanti bianchi dei doganieri.
Oltre le grandi fotografie di paesaggi, di torii e di giardini.
Ecco, ci siamo.
Sarà la decima volta che ci vengo ma ogni volta è lo stesso: lo stesso timore, la stessa emozione.
E questa volta poi ci sono degli amici, con me, un gruppo di persone di cui, bene o male – che lo vogliano o no – mi sento responsabile.
La testa pesante, il debito di sonno, la stanchezza, il fuso: le palpebre si chiuderebbero volentieri ma c’è ancora lo stupore, ancora la gioia intima, ancora la tensione che non ti fanno cedere, e invece ti fanno guardare fuori, oltre il finestrino a quel paesaggio urbano di megalopoli che hai di fronte e ti scopri a dirti: sì, c’è ancora quello che avevi scoperto, ci sono ancora quelle certezze che ti accompagnavano in quel primo viaggio del 1998 – e sì, ci sono le case basse e i bowling, le rete dei golf e le piccole stazioni di periferia con i loro passaggi sopraelevati, le tegole verdi e blu delle case unifamiliari e i futon a prendere aria appesi ai ballatoi.
Riconosco l case, riconosco le strade e gli oggetti.
Mi assalgono ricordi di altri viaggi e so già che anche questo sarà bello. Bello finché saprò tenere gli occhi spalancati e la mente sveglia e il cuore aperto, per accogliere tutto quello che accadrà.