Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Un missionario.

Dalla chiesa di Oura. Nagasaki, agosto 1999.

Ogni volta che ho cercato di scriverti, mi sono ritrovato a chiedermi se in effetti la lettera non sia indirizzata a te ma a me stesso, per calmare le mie inquietudini e portare in qualche misura comprensione nella mia mente. In fondo la ragione per cui non ho mai spedito nessuna delle lettere che ho scritte è probabilmente perché ho sentito che l’atto della scrittura era inutile e non recava alcuna soddisfazione nel profondo del mio cuore. Ma ora le circostanze sono alquanto diverse. Ora sento che sta germogliando nella mia mente una progressiva comprensione, sebbene imperfetta, riguardo a quel che hai fatto.
Da dove posso cominciare? Devo aprire con i miei ricordi di averti conosciuto nell’infanzia, quando per la prima volta giungesti in Giappone? O devo iniziare dal giorno in cui morì mia madre, quando, dopo essermi precipitato a casa mi apristi la porta d’ingresso soltanto per scuotere il capo e dire: “Se n’è andata”. 

In realtà mi sono imbattuto in te ieri. Naturalmente non avevi idea che io fossi là, o di essere osservato. Mentre sedevi al tavolo aspettando che ti portassero il cibo, hai tolto un libro dalla tua vecchia borsa nera (rammento quella borsa) e hai iniziato a leggere. Mi ha ricordato il modo in cui, quando eri un sacerdote, tiravi fuori il tuo breviario prima dei pasti e lo aprivi. Eravamo in un piccolo ristorante a Shibuya, e i passanti che camminavano sotto la pioggia minuta fuori dalla finestra appannata sembravano pesci in un acquario. […] È diventato proprio vecchio, ho pensato. È un vecchio decrepito. Dire questo significa correre il rischio di offendere un uomo che ha servito come missionario, ma all’epoca della tua giovinezza eri davvero un bel furfante. Ricordo ancora che quando ti incontrai per la prima volta all’ospedale di Kōbe e vidi il tuo viso profondamente marcato e i tuoi occhi color vino, persino da bambino pensai che uomo splendido fossi. Ora quel volto è stato roso dall’età, i tuoi capelli castani si sono sfoltiti (i miei, lo ammetto, sono piuttosto radi) e le tue guance appena sotto gli occhi sono rosse e gonfie, come se vi fossero state impiantate sacche di celluloide. Su quel volto ho cercato di cogliere la solitudine che è stata la tua sin dal fatto. Ho cercato di determinare le tue lotte da quando ti sei sobbarcato il peso di una moglie e figli e hai dovuto trovare un lavoro in una terra straniera, e il dolore che hai dovuto soffrire dopo aver perso i tuoi amici e chiunque potesse aiutarti.

Mi volevo alzare per avvicinarti e dire: “Salve, ne è passato di tempo!” Ma sono rimasto sulla mia sedia, incapace di parlarti e, come un detective di un’agenzia investigativa, ho nascosto il viso dietro il giornale e ti ho osservato. Certamente la curiosità era al lavoro. E anche il mio interesse per il comportamento umano in quanto romanziere ha giocato una parte. Ma c’era dell’altro. Una potente forza nella mia mente mi tratteneva e mi impediva di venire da te. Ho in animo di scrivere del potere che mi ha frenato in questa lettera. Ad ogni modo me ne sono stato seduto là a spiarti. Infine la cameriera ti ha portato un piatto colmo di cibo. Hai assentito e sorriso come prima, quindi infilato un fazzoletto nella camicia invece del tovagliolo. Ti stavo ancora osservando intensamente. Hai raddrizzato la sedia e ti ci sei seduto compostamente. E poi hai portato le dita al petto e rapidamente, così nessuno l’avrebbe notato, ti sei fatto il segno della croce. Un’inesprimibile emozione si è sollevata dentro di me in quell’istante. “Allora sei ancora così, dopo tutto?”

La forza che mi ha impedito di andare al tuo tavolo: difficile spiegare che cosa fosse. Perché, per esprimerla in altre parole, è uno dei maggiori fiumi che hanno dato forma alla mia vita. […]

 

Ho detto di averti incontrato, ma questo è stato tutto quello che è successo. Naturalmente non ho raccontato nulla a mia moglie. Quell’insignificante riunione ha fatto capolino nella mia mente negli ultimi anni, spesso la notte. E mentre considero come sembravi quando te ne stavi con la schiena rivolta verso di me, quell’immagine si sovrappone a numerose altre ombre che hanno attraversato il fiume della mia vita. Il vecchio russo bianco che vendeva pane russo a Dairen quando ero bambino. L’anziano straniero che scivolava furtivamente negli alloggi del sacerdote, trascinando le sue gambe stanche. (Quel vecchio straniero fu espulso dal clero per essersi sposato, proprio come te). Un crepuscolo d’estate, mentre cercavo di fuggire da lui, aveva detto: “Non aver timore di me”. I suoi occhi mesti si sovrappongono agli occhi del cane bastardo del quale mi costringesti a sbarazzarmi. Come mai gli occhi degli animali e degli uccelli sono colmi di tanto dolore? Non posso fare a meno di sentire che tutte queste immagini si sono unite in una catena dentro di me, stringendo assieme legami di consanguinee, e tentano di comunicarmi qualcosa. Ma quando faccio loro posto nella mia vita come una sorta di catena, non riesco più a pensare a te come a un missionario dinamico, traboccante di fiducia e convinzione, né come ad un uomo, fra edifici ed appartamenti illuminati dove il bucato è appeso fuori ad asciugare, che guarda alla vita dall’alto di una posizione più elevata e pronunzia giudizi su di essa. Invece penso a te come a un uomo i cui occhi ora non sono diversi dagli occhi tristi di un cane. Di conseguenza, anche se mi ha davvero tradito, la mia amarezza a riguardo si è attenuata. Anzi, penso persino che la persona in cui un tempo credesti sia giunta qua proprio a questo fine. O forse lo sai già. Perché in quel ristorante a Shibuya, mentre fuori cadeva una pioggia minuta, rapidamente e discretamente ti sei fatto il segno della croce dopo che la cameriera ti ha portato il cibo. Ecco tutto quel che davvero comprendo di te ora.

 

Endō Shūsaku

(1923-1996)

 

Traduzione di Piera Rupani.

Da: “Ombre” (Kagebōshi, 1968) in Una donna chiamata Shizu, Piemme, Casale Monferrato, pp. 30-65.

 

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In uno dei suoi racconti più belli, Endō Shūsaku traccia il ritratto di un missionario che ha avuto un ruolo fondamentale nella sua vita: prima direttore spirituale della madre, che dopo il divorzio si era convertita al cattolicesimo e aveva praticamente imposto al figlio il battesimo e poi, avendo abbandonato la tonaca, padre di famiglia. Un percorso che i suoi fedeli – e lo stesso scrittore –  avevano interpretato come un  tradimento. Se il romanzo Silenzio, considerato il suo capolavoro, racconta le persecuzioni e il martirio, sono i racconti  a rivelare il difficile vissuto religioso dello scrittore e i suoi sentimenti più intimi.