E ti lascio così, Tōkyō, in un pomeriggio indeciso fra nubi e sole, mentre i tetti si allontanano, i palazzi fuggono via e anche le nostre voci d’improvviso si zittiscono.
Il jingle dall’altoparlante, nella carrozza, anticipa l’annuncio dell’arrivo a Shin-Yokohama e Tōkyō è già lontana, ricordo. Di passeggiate e di altre vacanze nel corso di più viaggi o, questa volta, di un gruppo arrivato nella megalopoli sotto un acquazzone epocale, intimidito dai mille segni di una città sconosciuta e con l’intima convinzione di sentirsi respinto. Ma lo so, Tōkyō, lo sento che alla fine li hai conquistati e hai lasciato che se ne tornassero a casa con il desiderio di ritornare, di approfondire la conoscenza, di riscoprirti.
Per me è diverso e lo sai, Tōkyō. Ogni volta che torno scopro di amarti con maggiore consapevolezza. Un amore adulto che si meraviglia ma che è capace di osservare con occhio disincantato le tue debolezze, le tue miserie non troppo nascoste, a volte. L’umanità dolente nei viali del parco di Ueno, negli angoli nascosti, lungo le rive del Sumidagawa. I pendolari vomitati dalle carrozze dei treni nella fretta del mattino e, la sera, appesi alle maniglie, gli occhi semichiusi dalla stanchezza. Non tutto luccica, lo so, eppure, eppure.
Eppure non vorrei andarmene, non vorrei. Mi sembra sempre troppo poco il tempo, qui – e mai come questa volta mi è sembrato di non averne – ho troppe scoperte ancora da fare, troppe strade da percorrere, quelle piccole prive di marciapiedi ma cariche di storia di Yanaka, quelle in pendenza sopra Ochanomizu, quelle ampie ed eleganti di Marunouchi, quelle pullulanti di vite di Ikebukuro e chissà quante altre.
Non voglio andarmene eppure me ne sto andando. E ricordo.