Identités japonaises
Da qualche parte dietro place de Clichy, al fondo di un impasse luminosa perché aperta da un lato su un piccolo giardino pubblico, un vecchio locale dove si ballava è stato trasformato in centro culturale ed espositivo dedicato alla fotografia. Sale immacolate, un bar alla moda quel tanto che basta, atmosfera amichevole e un ufficio/biglietteria debordante di pubblicazioni come una biblioteca privata: è Le Bal, “nouveau lieu d’exposition dédié à l’image-document”. Promessa mantenuta già dalla prima esposizione che abbiamo visitato oggi. “Tokyo-e” è una mostra o meglio, tre mostre insieme, che hanno inaugurato una vera e propria stagione giapponese di Le Bal, costituita da una rassegna cinematografica per nulla scontata, da conferenze, da letture-performances, da dibattiti pubblici.
“Tokyo-e” presenta l’opera di tre grandi fotografi giapponesi: Watabe Yukichi, Takanashi Yutaka e Kitajima Keizo. Tre percorsi diversi, tre visioni diverse ma un’unica ricerca di un’identità giapponese ormai meticcia e proiettata verso la complessità del mondo.
Con un bianco e nero drammatico che mi riporta – per quelle associazioni mentali che scattano prepotenti senza che ci si possa trattenere (e a me capita spesso) – ai film del periodo neorealista di Kurosawa, e a Cane randagio in particolare, Watabe segue l’indagine di un omicidio nella Tōkyō del 1958. Giovane reporter, il fotografo ha la rara fortuna di ottenere dalla polizia il permesso di seguire gli investigatori nella loro ricerca sulle tracce dell’autore di un delitto efferato. Gli scatti, montati uno accanto all’altro come in un film poliziesco in una serie che si intitola significativamente “Une enquête criminelle”, rivelano il lavoro paziente di segugi dei poliziotti, catturano gli sguardi durante i pedinamenti, le smorfie dei sospettati durante gli interrogatori, gli ambienti sordidi o semplicemente miseri del Giappone ancora in macerie dei quartieri popolari.
Allo stesso modo Takanashi, una delle figure di maggior rilievo nella storia della fotografia giapponese, nella serie “Machi” (Città), degli anni 1975-1977, ritrae la città bassa, la shitamachi di Tōkyō in grandi immagini a colori di poveri interni, di piccoli negozi, vuoti di ogni presenza umana. I resti di un Giappone che pare non raggiunto dal miracolo economico, una città che sa ancora di dopoguerra e di ricostruzione, una città destinata a scomparire ma che mi ha potentemente risvegliato la nostalgia di Asakusa, delle sue vecchie, piccole strade.
Kitajima in tre serie che coprono realtà diverse come Okinawa, Tōkyō e New York dal 1975 al 1984 sembra invece perennemente alla ricerca dell’identità frammentata, problematica, meticcia dell’umanità dolente che ritrae con scatti spesso “sporchi”: un bianco e nero pittorico, fatto di sovrapposizioni, di contrasti, che cattura lo sguardo ma che pone molte domande, a quello sguardo.
Domande che mi faccio ancora in metrò, mentre osservo il mondo, questo mondo che passa o vive a Parigi, questo mondo che sale a ogni fermata.
Le Bal è al n° 6 dell’impasse de la Défense.
www.le-bal.fr
Letto in metropolitana, a Concorde
(sulla colonnina gialla dell’allarme):
Pour appeler le chef de station.
E, più sotto:
SOURIEZ
(scritto a pennarello verde)