Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Pene d’ amore.

Toshikata Mizuno, Disegno all’aperto, 1903.

 

Il sole estivo stava ormai tramontando. Nel boschetto di Sakai a Yarai i corvi gracchiavano rumorosi. La cena era terminata in tutte le case e agli ingressi si vedevano qua e là bianchi visi di giovani donne. Dei ragazzi giocavano a palla. Aveva incrociato anche diversi gentiluomini dai lunghi baffi sottili e con l’aria da funzionari che passeggiavano per Kagurazaka in compagnia delle loro giovani mogli dalle acconciature alla moda. Tokio, col cuore in collera e il corpo stordito dall’alcool, era tremendamente confuso e gli sembrava che tutto ciò che vedeva attorno facesse parte di un’altra realtà. Gli sembrava che le case ai lati della strada si spostassero, che la terra gli sfuggisse da sotto i piedi e che il cielo gli crollasse sulla testa. Per natura non reggeva bene l’alcool e, siccome aveva bevuto in fretta, l’ubriacatura si era fatta sentire tutta d’un tratto. All’improvviso gli venne in mente la plebaglia russa che si ubriaca e crolla addormentata sul ciglio della strada. Poi ricordò le parole di un amico: “Per questo i russi sono da ammirare! Se ci si deve lasciare andare, bisogna farlo fino in fondo!” Disse ad alta voce: “Al diavolo! In amore cosa importa della differenza tra allieva e maestro?!”

Quando arrivò in cima a Sanaizaka, dopo aver risalito Nakanezaka e aver oltrepassato il cancello sul retro dell’accademia militare, il sole era già completamente tramontato. Yukata bianchi sfilavano uno dietro l’altro. La giovane moglie del tabaccaio stava davanti a negozio. La tendina davanti alla bottega del ghiaccio sventolava alla fresca brezza della sera. Tokio guardava con occhi offuscati quella scena serale estiva, mentre avanzava barcollando, ora rischiando di andare a sbattere contro un palo del telegrafo, ora cadendo sulle ginocchia dopo essere inciampato in una canaletta di scolo, ora ricevendo gli insulti di un operaio che gli gridava dietro: “Cammina dritto! Ubriacone!” Come se si fosse ricordato improvvisamente di qualcosa, in cima alla salita girò a destra ed entrò nel santuario di Ichigaya Hachiman. Il giardino del tempio era completamente deserto. Vecchi alberi di olmo e di pino si stagliavano imponenti. In un angolo, sulla sinistra, cresceva rigogliosa una lentaggine. Qua e là iniziavano ad accendersi i lampioni. In preda a un’indicibile sofferenza. Tokio andò improvvisamente a nascondersi dietro un albero di lentaggine, e si stese ai suoi piedi. Si trovava in uno stato di eccitazione; pervaso da un senso di libertà e da una triste soddisfazione di estrema intensità; se da un lato era in preda a una gelosia lancinante, dall’altro guardava con fredda obiettività la propria situazione.

Ovviamente non provava la passione ardente di quando si ama per la prima volta. Più che affidarsi ciecamente al destino, lo esaminava freddamente. Una calda emozione soggettiva e una fredda analisi oggettiva s’intrecciavano saldamente come due fili e suscitavano in lui uno strano stato d’animo. Era triste, infinitamente triste. Tuttavia quella non era la sublime tristezza della giovinezza e nemmeno la semplice tristezza che accompagna l’amore tra uomo e donna: era la tristezza enorme che si nasconde nel profondo della vita. Non l’acqua che scorre, non i fiori che appassiscono, nulla suscita un senso di precarietà e compassione più di un essere umano davanti alla forza irresistibile radicata nel fondo della natura.

Le lacrime scorrevano copiose sul viso ispido di Tokio. 

All’improvviso sentì un qualcosa nascergli nel cuore. Si alzò e si mise a camminare. Era ormai notte. Le lampade a gas all’interno de recinto del santuario erano accese e si potevano distinguere chiaramente su di esse i caratteri “illuminazione notturna”. La vista di quelle parole lo colpì. Non gli era già successo di vederle in preda a una profonda afflizione? Quando la moglie portava ancora i capelli alla momoware e viveva in una casa proprio lì sotto, era salito spesso fino a quel tempio di Hachiman per cercare di sentire il flebile suono del suo koto. Provava una passione così intensa che, se non avesse potuto averla, pensava, sarebbe partito per le colonie dei mari del Sud. Immerso in quei pensieri, guardava fisso il torii, la lunga scala di pietra, la sala del santuario, le lampade con gli haiku e le parole “illuminazione notturna”. Ai piedi dell’altura su cui si trovava il tempio, le case erano immutate; ogni tanto arrivava il rombo del treno a interrompere la sua solitudine e alle finestre della vecchia casa della moglie risplendeva come un tempo la chiara luce delle lampade. Cuore incostante! Chi avrebbe pensato che sarebbe cambiato così tanto nell’arco di soli otto anni? Perché passando dal momoware al marumage,* la loro vita piena di allegria era diventata così grigia? Com’era giunto a provare quella nuova passione? Tokio avvertì con acuta intensità quanto fosse spaventosa la forza del tempo. Stranamente, però, la realtà nel suo cuore non ne fu minimamente scossa.

“Non ci posso fare niente se è una contraddizione. Contraddizione o incoerenza che sia, questa è la realtà e non c’è niente da fare. La realtà è la realtà!” ripeteva Tokio dentro di sé.

Poi, come sopraffatto da una invincibile forza naturale, si stese di nuovo su una panchina lì vicino. Si accorse che una grande luna rossastra e senza raggi era salita silenziosa sopra ai pini che circondano il palazzo imperiale. Quel colore, quella forma e quell’aspetto erano infinitamente tristi. Tokio pensò che quella tristezza ben si adattava alla propria e una nuova insopportabile malinconia gli riempì il petto.

La sbornia gli era passata. Iniziava a formarsi la rugiada notturna.

 

Tayama Katai

(1872-1930)

Traduzione di Ilaria Ingegneri.

Da: Il futon (Futon, 1907), a cura di Luisa Bienati.Venezia, Marsilio, 2015, pp. 73-76.

*Momoware era la tipica acconciatura delle fanciulle fino ai 18 anni, che ricordava le due metà di una pesca (momo);

marumage era invece la tipica acconciatura delle donne sposate.

 

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Il romanzo Futon rappresentò un momento importante nella storia della letteratura giapponese. Storia dell’infatuazione di un professore di mezza età per la fanciulla di cui è mentore che, a sua volta, è innamorata di uno studente, è considerato il primo shishōsetsu (o romanzo dell’io) moderno, un genere fortemente influenzato dalla letteratura naturalista francese. Nettamente autobiografico ma scritto in terza persona, il romanzo propone in maniera inedita per l’epoca uno sguardo non soggettivo sulle azioni e i sentimenti dei personaggi ed è di lettura godibile ancor oggi.