Ho ripreso fra le mani un libro che, appena uscito, ho molto amato. Ho ritrovato, intatto, tutto il grumo di emozioni che mi aveva suscitato. Può cambiare la vita, un libro? No, non potrò mai dirlo. Ma sì, è vero, è possibile specchiarsi in un testo, leggersi come se le parole fluissero da te, con la facilità di qualcosa che è tuo. Sì, è possibile per me continuare a leggere questo testo di un autore che già amavo come ritrovare ogni volta un amico, come condividere ogni volta questo peso quotidiano. “Condividere” è una parola abusata, d’accordo. E allora? Allora semplicemente vale la pena di dirsela, questa consapevolezza di una condizione che affratella, di un cammino parallelo, di un comune sentire, patire, gioire. Da essere umano a essere umano. Grazie, Umberto.
Anche nelle giornate più serene
di primavera, quando i veli del mondo cadono
e il muro, la strada, il glicine,
ritorna chiara la gioia
che li sostiene e li illumina
– è inutile: prima o poi
mi sento mordere dentro un veleno,
un’ombra, un dispiacere.
Siete voi.
***
Eccovi ancora.
Ecco l’accusa: il muro,
la strada, il glicine, brillano
negli occhi di qualcuno.
Io. Uno.
E uno è troppo poco.
E’ niente. E il suo rimorso.
Invece voi – là, tranquilli:
siete i milioni, gli infiniti.
Chi potrebbe scampare ai vostri inviti,
ai vostri giochi? Sì, eccomi.
Forza coi quattro cantoni, la mosca cieca.
Via con la musica.
Pronti col ballo dell’orso.
***
In fondo al mio respiro, dentro, giù, giù,
nel punto più buio, dove
sono più solo, sono più io,
vi trovo.
Eravate giù lì
a far merenda,
a fare due tiri, a prendere
un po’ di sole.
***
Voi vi prendete il sole.
La neve vi prendete,
a morsi, a urli, e vi ci rotolate.
Il muro, la strada, il glicine,
hanno un odore triste,
di roba vostra.
Sì, sono stato io. Ma vi giuro:
non lo sapevo,
non l’ho fatto apposta.
***
Che bocche avete, che dita.
Quanti denti. Che morsi. Come inghiottite,
come poppate ad occhi chiusi,
a lunghi sorsi sognanti
dalla bottiglia.
Io – grazie, no, non ho sete,
non ho appetito.
***
Voi credete che in mente abbia soltanto
me stesso.
Sapeste invece quanto spesso
vi penso: continuamente.
Penso alle smorfie di ribrezzo,
agli urli soffocati, ai risolini
intorno al groviglio nudo
là in mezzo. Ruvido, giallo.
Penso alla gabbia di cristallo,
al lezzo di palude e di creolina,
alle testate del serpente.
***
A voi io penso sempre. Penso alla mia
infinita mancanza.
Cos’altro ho avuto in testa,
tutta la vita?
Lo so, non ci sarete
mai abbastanza.
Ma perché allora, perché
non ce ne andiamo tutti via?
Umberto Fiori
Da Voi, Mondadori, 2009.
Con la gentile e amichevole autorizzazione dell’autore.