Avevo letto alcuni fascicoli di Genji monogatari e desideravo ardentemente leggere gli altri, ma non conoscevo ancora nessuno e non avevo modo di procurarmeli. Ero piena d’impazienza e non mi davo pace e mentalmente pregavo sempre di poter leggere tutti i libri di Genji monogatari dal primo fino all’ultimo.
Quando i miei genitori facevano il loro ritiro nel tempio di Uzumasa, io non chiesi alle loro preghiere che questo romanzo, desiderando leggerlo appena l’avessi potuto ottenere, ma tutto fu vano. Ero inconsolabile. Un giorno andai a trovare una mia zia che era arrivata allora dalla campagna. S’interessò a me, mi mostrò grande tenerezza e disse affettuosamente che ero cresciuta bene. Quando stavo per andare via chiese: – Che cosa ti posso regalare? Opere serie non ti potranno interessare: ti darò quello che ti piace di più – E mi diede più di cinquanta fascicoli di Genji monogatari racchiusi in uno scrigno, come pure Ise monogatari, Togimi, Serikawa, Shirara e Asa-utsu. Com’ero felice mentre tornavo a casa con tutti quei fascicoli nella borsa! Fino a quel giorno non avevo potuto leggere che un fascicolo qua e là ed ero rimasta insoddisfatta perchè non arrivavo mai a capire l’intreccio. Ora potevo sprofondarmi in quelle storie, tirarle fuori a una a una e rinchiudermi dietro al paravento. Essere imperatrice non è nulla in confronto a una gioia come questa!
Tutto il giorno e tutta la notte finché riuscivo a tener gli occhi aperti non facevo che guardar libri accanto a una lampada.”*
La mia storia con Genji inizia con una lettura famelica quasi quanto quella di dama Sarashina che nel suo diario, composto fra il 1021 e il 1040 circa, descrive la sua divorante passione per la lettura.
E’ stata la lettura all’inizio del mio percorso di studi giapponesi, l’anno dell’esame di maturità e della mia scoperta della letteratura giapponese, quando avevo preso quel volume in prestito alla Biblioteca Sormani. Un vecchio tomo rilegato in quella tipica veste marrone della biblioteca, dall’odore così caratteristico e riconoscibile dei vecchi fondi librari (era del resto proprio la prima edizione italiana, quella originale del 1957, ancor oggi ammessa al prestito), un volume un poco sgualcito che leggevo la sera tornata dal lavoro in quella libreria medica dove avevo appena iniziato a lavorare e dove un collega, che aveva colto con rara sensibilità quella nascente passione dai miei discorsi durante le nostre passeggiate serali in una Milano allora “da bere”, mi aveva regalato un profumo giapponese in un elegante flacone violaceo: Murasaki.
La seconda lettura fu qualche anno dopo, quando il libro mi fu regalato dal grande amore della mia vita. Poco prima che ci sposassimo.
Poi si susseguirono, via via, letture disordinate di capitoli: per necessità di studio, per curiosità improvvise suscitate a cascata da altri libri, saggi, citazioni, mostre d’arte.
Ora è la volta di una terza lettura, quella che merita la traduzione in lingua italiana finalmente condotta sull’originale giapponese. Finora ci eravamo dovuti affidare a una traduzione dall’inglese, quella di Adriana Motti, condotta sulla versione di Arthur Wiley, considerata ormai da tutti gli studiosi una sorta di riscrittura molto libera, ancorché rispettabile se non altro per l’indiscusso merito di aver contribuito alla diffusione mondiale del capolavoro di Murasaki.
Ora, però, può finalmente esserci, per noi, il tempo della riscoperta e, per me, il tempo della rilettura.
* Cito qui con qualche necessaria modifica, per comodità poiché si tratta dell’unica edizione che possiedo, il testo dall’edizione del diario di dama Sarashina contenuto nella raccolta di Einaudi, Diari di dame di corte nell’antico Giappone, a cura di Giorgia Valensin (1970), pur consapevole che l’unica edizione filologicamente corretta in lingua italiana è quella a cura di Carolina Negri: Le memorie della dama di Sarashina, Venezia, Marsilio, 2005.