Nella città, l’erranza. L’ultimo libro che ho letto di Patrick Modiano.

 

Rive Gauche, place de la Sorbonne. Ottobre 2014.

A vent’anni provavo un certo sollievo quando attraversavo la Senna dalla Rive Gauche alla Rive Droite, passando sul pont des Arts.

Era già notte. Mi voltavo un’ultima volta per veder brillare, sopra la cupola dell’Istitut, la stella del Nord.

Tutti i quartieri della Rive Gauche non erano che la provincia di Parigi. Quando avevo raggiunto la Rive Droite, l’aria mi sembrava più leggera.

Mi domando oggi da che cosa scappavo attraversando il pont des Arts. Forse il quartiere che avevo conosciuto con mio fratello e che, senza di lui, non era più lo stesso: la scuola della rue du Pont-de-Lodi, il comune del VI arrondissement dove si tenevano le distribuzioni dei premi, l’autobus 63 che attendavamo davanti al Café de Flore e che ci portava al Bois de Boulogne… Ho sentito a lungo come un malessere a camminare per certe vie della Rive Gauche. Ora mi è indifferente, come se fosse stata ricostruita pietra su pietra dopo un bombardamento ma avesse perso la sua anima.

Eppure, un pomeriggio d’estate, ho trovato in un lampo, svoltando dalla rue Cardinale, qualche cosa della Saint-Germain-des- Prés della mia infanzia che assomigliava alla città vecchia di Saint Tropez, senza i turisti. Dalla piazza della chiesa la rue Bonaparte discendeva verso il mare.

Una volta attraversato il pont des Arts, passavo sotto l’androne del Louvre, un regno che, anch’esso, mi era familiare da tempo. Sotto quella volta, un odore di cantina, di urina e di legno marcio proveniva dal lato sinistro del passaggio, dove non osavamo mai avventurarci. Il giorno cadeva da una vetrata sporca e tappezzata di tele di ragno e lasciava in penombra dei mucchi di macerie, di travi e dei vecchi utensili di giardinaggio. Eravamo sicuri che lì si nascondessero dei ratti e affrettavamo il passo per sbucare all’aria aperta, nella corte del Louvre.

Ai quattro lati della corte, l’erba cresceva fra le lastre sconnesse del pavé. Anche lì vi erano mucchi di detriti, di pietre da taglio e di fili di ferro attorcigliati.

La corte del Carrousel era bordata di panchine di pietra, ai piedi delle ali del palazzo che inquadravano le due piccole piazze. Non c’era nessuno su quelle banchine, tranne noi. E qualche volta un clochard.

Al centro della prima piazzetta, su un piedistallo così alto che si scorgeva a malapena la statua, il generale La Fayette era perso nei suoi pensieri. Un prato che non veniva mai tagliato circondava quel piedistallo. Potevamo giocare e sdraiarci nelle erbe alte senza che nessun guardiano venisse mai a rimproverarci.

Nella seconda piazzetta, fra le siepi, due statue di bronzo, l’una accanto all’altra: Caino e Abele. Le cancellate risalivano al Secondo Impero. I visitatori si ammassavano all’ingresso del museo del Louvre, ma noi eravamo gli unici bambini a frequentare quelle piazzette abbandonate.

La zona più misteriosa si estendeva a sinistra dei giardini del Carrousel, lungo l’ala sud che termina nel padiglione di Flore. Era un lungo viale, separato dai giardini da una cancellata e bordato di lampioni. Come nella corte del Louvre, l’erbaccia cresceva fra le lastre del pavé ma la maggior parte di queste era scomparsa, rivelando porzioni di terra.  In alto, nella rientranza che faceva l’ala del palazzo, un orologio.

E, dietro all’orologio, la cella del prigioniero di Zelda. Nessuno di coloro che passeggiavano nei giardini del Carrousel si avventurava per quel viale. Noi giocavamo dei pomeriggi interi fra quelle vasche e le statue in frantumi, le pietre e le foglie morte. Le lancette dell’orologio non si muovevano.  Indicavano per sempre le 5 e mezza. Quelle lancette ci avvolgevano in un silenzio profondo e tranquillizzante. Bastava restare nel viale e niente sarebbe cambiato.

C’era un commissariato di polizia nella corte del Louvre, a destra della volta che conduceva in rue de Rivoli. Un furgone era parcheggiato lì vicino. Degli agenti in uniforme stavano davanti alla porta semiaperta da cui filtrava una luce gialla. Sotto la volta, a destra, l’ingresso principale del commissariato. Per me era quello il posto di frontiera che segnava veramente il passaggio dalla Rive Gauche alla Rive Droite, e verificavo davvero di avere ben in tasca la carta d’identità.

I portici di rue de Rivoli, lungo i magazzini del Louvre. La piazza del Palais Royal e il suo ingresso del metrò.  Questo dava accesso a un corridoio dove si succedevano delle piccole botteghe di lustrascarpe con il loro sedile in cuoio, delle vetrine di bigiotteria e di souvenir.  Bastava ora scegliere quella che sarebbe stata la meta del viaggio:  Montmartre o i quartieri dell’ovest.

Patrick Modiano

 

Da Fleurs de ruine, Seuil, 1995, pp. 88-92. La traduzione – di puro servizio – è mia.

 

Questo è il libro di Patrick Modiano che ho letto più di recente, acquistandolo al volo alla Gibert Joseph di boulevard Saint-Michel, raccolto da un tavolo a lui dedicato dopo l’assegnazione del Nobel e cercando di capire, fra le molte copertine nuove e le frettolose ristampe, quale poche mi fosse rimasto da leggere essendo, Modiano, uno dei miei scrittori preferiti di sempre. La sua scrittura limpida e tagliente come una lama, essenziale eppure ipnotica e avvincente, i suoi percorsi attraverso la città, vera protagonista delle sue storie, la sua empatia e il suo desiderio di verità. Quanto amo questo scrittore!

Louvre, il passaggio verso rue de Rivoli. Ottobre 2014.