Gli aironi in volo sulle risaie ormai verdi.
La porta chiusa di scatto, una voce estranea e fastidiosa appesa all’orecchio spenta da un vecchio e amato brano rock sussurrato dalle cuffie. Un sorriso al passaggio a livello, qualche cuscino affacciato a un davanzale e il treno che sfreccia fra le case.
Un parcheggio sterminato e solitario e, in lontananza, la riposante silhouette delle montagne – nevi lontane. Piccole fabbriche a poco a poco avanzanti e i soliti discorsi alle spalle. Noiosi, irritanti. Quella lontana fila di auto in coda, una gru incongrua, su un tetto.
Improvvisa, la città: i loft pretenziosi della periferia, una cittadella del design che si accende una volta all’anno e, per il resto, la miseria, fra il binario e un muro di cinta. Due piccole tende da campeggio blu e la consapevolezza del dolore di una vita difficile. Così dura. Ingiusta.
Scritte a spry di writers senza più ispirazione e varie dichiarazioni d’amore, lette chissà da chi.
Rallenta, tossisce, si ferma.
Ecco, già la bocca del metrò è pronta a inghiottirmi. Un lunedì come un altro.
Nel ventre della balena percorro il filo rosso di questo tunnel che sembra non avere fine.