In questa nuova stagione voglio ricordare le donne giapponesi. Un profilo alla settimana. Dedicato a noi.
È una verità: alle origini della grandi espressioni artistiche giapponesi sta sempre una donna.
Se la letteratura giapponese classica ha in Murasaki Shikibu la sua fulgida e geniale madre (mentre in Europa abbiamo solo padri: Dante, Cervantes, Shakespeare…), il teatro kabuki ha nella sacerdotessa Okuni il suo nume tutelare.
Ma chi era Okuni, colei che ha “inventato” il kabuki, una delle grandi forme di teatro classico giapponese?
Come tutti i fondatori, un alone di leggenda circonda questa figura di donna indipendente, figlia forse di un sacerdote del grande tempio shintō di Izumo che ancora molto giovane con alcune compagne lasciò la provincia natale per percorrere le strade del Giappone allo scopo di raccogliere fondi per il restauro di quel venerabile luogo di culto.
Approdata a Kyōto, sulle sponde del fiume Kamo dove si improvvisavano spettacoli di pantomime e acrobazie, avrebbe dato vita attorno al 1603 a danze dapprima sacre in onore del Buddha Amida (il nenbutsu odori o danze di invocazione del santo nome di Amida) e poi, con alcune compagne, il kabuki odori, danza creata elaborando i cosiddetti i furyū odori (danze alla moda), ossia vivaci danze popolari accompagnate da canzoni tradizionali ed eseguite in costumi colorati e allegri durante i matsuri (le feste religiose).
Ben pochi aspetti ci sono conosciuti della vita di Okuni, miko (sacerdotessa) e danzatrice, nata non si sa quando e morta forse nel 1640. Poco resta di lei, come queste strofe che amava cantare:
Waga koi wa
tsuki ni murakumo
hana ni kaze to yo
hosomichi no koma
kakete omou zo
kurushiki.
A tada ukiyo wa
nama ki ni nata ja to nō
omoimawaseba
ki no doku ya nō.
A tada Okuni wa
yu no ki ni neko ja to nō
omoimawaseba
ki no usuri.
L’amor mio è come
la luna [offuscata] da masse di nubi
o fiore [agitato] dal vento;
e, affannoso,
il [mio] pensiero corre, come
puledro per uno stretto sentiero.
Oh sì, questo mondo non è
che ascia [calata] su legno fresco;
se ci ripenso,
è cosa che rende triste!
Oh sì, Okuni è
come il gatto e l’albero di cedro;
se ci ripenso,
è medicina per lo spirito.*
Pare che Okuni mischiasse abilmente nelle sue rappresentazioni elementi sacri ed elementi profani, arrivando ad evocare lo spettro del suo amante, Nagoya Sanza (Sanzaemon, 1576-1604), un fuorilegge morto in una rissa, e rivivendo sulla scena le eccentriche imprese della sua vita. Gli studiosi però rilevano che, per un problema di date (Sanza è un personaggio storico e ben documentato) è impossibile che fra i due ci sia stata una relazione. Questo “amore” leggendario sarebbe allora frutto delle capacità affabulatorie di Okuni, abile del resto a evocare nei suoi canti altri personaggi antichi di grande fascino, capaci di colpire la fantasia del popolino che accorreva ai suoi spettacoli, come il poeta Ariwara no Narihira (825-880), celebre per l’ingegno e le sue numerose conquiste femminili.
Il successo dello spettacolo di Okuni fu travolgente e spinse alcuni gruppi di prostitute a imitare le sue danze per attirare i clienti. Alla danza unirono pantomime e scene comiche, spesso ricche di allusioni sessuali, utilizzando costumi maschili ma in modo provocante e materiali scenici esotici, come le pipe (appena introdotte dagli olandesi) e rarissime pellicce (provenienti dal continente). Questo tipo di spettacolo fu chiamato onna kabuki o yujō kabuki (kabuki delle prostitute).
Il successo fu tale sul pubblico delle città, che alcuni daimyō arrivarono ad invitare le cortigiane e le loro compagnie ad esibirsi nei loro castelli in occasione di feste particolari. Tutto questo non sfuggì al bakufu (il governo shogunale) che già dal 1608 iniziò ad emanare decreti contro questo tipo di spettacolo considerato “disturbo nazionale” della moralità. Si giunse così, nel 1629, alla proibizione definitiva del kabuki delle donne.
Il kabuki avrebbe allora preso altre strade, diventando un’arte esclusivamente maschile. Ma il ricordo di Okuni, miko e danzatrice, figura in bilico fra sacro e profano, sarebbe rimasto per sempre legato al ricordo delle sue origini.
* Traduzione di Marcello Muccioli.