Parigi, itinerari giapponesi. 11

 

Domenica pigra in cui, stando seduti alla terrasse di un bar sorseggiando senza nessuna fretta un ottimo caffè, assapori pienamente il significato di flânerie, questo termine così inafferrabile e intraducibile, coniato da Baudelaire per definire il piacere di passeggiare senza meta e senza scopo per queste strade, fra questi palazzi, alla velocità “di chi porta al guinzaglio una tartaruga”. Insomma, il puro piacere di camminare qui, proprio qui, in questa città e non altrove, su questo asfalto e fra questi odori, su queste foglie che cadono, su queste grate che mandano l’aria del metrò. No, non altrove, qui.

Flânerie è un piacere indissolubilmente legato a Parigi.

(Anche se posso sussurrare, confessare solo a mezza voce che questo momento unico di piacere può realizzarsi anche a Tōkyō, ma sssssh, non deve saperlo nessuno, si tratta di una sensazione personalissima e forse non condivisibile da altre persone. Quindi: acqua in bocca!)

Domenica pigra, dicevo, ma non immobile.

Una mostra ci porta al Pantheon buddhista del Museo Guimet, in avenue d’Iéna. Tutti sanno che cos’è il Guimet, lo storico museo dedicato alle arti asiatiche, uno dei più importanti d’Europa. Pochi sanno che in un palazzo liberty a poche centinaia di metri dalla sede principale, è ospitata l’importante collezione di statuaria buddhista giapponese di Emile Guimet, l’imprenditore, mecenate e fondatore del museo.

In questi mesi è ospitata l’interessante esposizione Ofuda. Images gravèes des temples du Japon, dedicata alla preziosa collezione dello studioso Bernard Frank, primo professore ad insegnare Civilisation japonaise al prestigiosissimo Collège de France, creata nel corso delle sue pellegrinazioni ai templi giapponesi fra il 1954 e il 1995. Si tratta della più completa raccolta al mondo di piccole immagini devozionali, stampe su carta recanti l’immagine venerata di ogni tempio e distribuite ai pellegrini che le conservavano attribuendo loro carattere apotropaico di talismani.

Ho la consapevolezza di trovarmi davanti a un insieme unico, testimonianza dell’aspetto devozionale del buddhismo giapponese, spesso troppo trascurato dai testi.

E intanto, una piccola uscita si impone al minuscolo giardino giapponese al di là delle vetrate del palazzo. Quasi uno tsuboniwa, questo giardino al centro del quale campeggia un padiglione del té aperto solo in rare occasioni e, ovviamente, durante le dimostrazioni di chado. Pietre disposte sapientemente, un piccolo boschetto di bambù e, ahimè, solo il letto secco di corso d’acqua artificiale in fase di manutenzione. Ma pur sempre un omaggio al Giappone, qui così amato.

E uscendo, nell’atrio, un invito a ricordare il Giappone, ora più che mai: “Solidarité Japon” è la scritta che campeggia su un imponente stendardo color murasaki.