Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Un ritratto di donna.

Stampa di Kobayakawa Hiroshi, 1930 circa.

Piccola e magra, vicina ai sessanta, indossa un vestito grigio-azzurro, occhiali dalla montatura in metallo, una collana di fiori intorno al collo; fissa dalla finestra del ponte le luci di Honolulu che si allontanano. Si è appena separata dagli anziani amici concittadini che avevano viaggiato con lei fino alle Hawaii e ritorna da sola a Los Angeles.

Quarant’anni fa emigrò in California da Sendai. Oggi possiede un hotel di medio rango a Los Angeles e la sua famiglia prospera in quella terra. Questa è la quarta volta che ritorna in Giappone. L’ultima incappò nel grande terremoto del Kantō di ventotto anni fa, e al momento di salpare tutto il suo bagaglio andò bruciato. Poiché pensa che questo viaggio sarà sicuramente il suo addio al Giappone, ha rinviato la partenza e si è spinta qua e là, nello Shikoku, nel Kyūshū, ha visto Hiraizumi e Matsushima, che a pensarci bene non è molto lontana dalla sua città natale, sotto la neve. Il paesaggio di Matsushima è quello che le è più familiare, ma è la prima volta che vede quest’isola [sic] avvolta dalla neve.

Ormai sono quarant’anni che vive in America, e poiché figli e nipoti hanno una cittadinanza americana, pensa che sarebbe giusto se anche lei potesse avere la naturalizzazione. Però le pratiche non procedono affatto. Quando sembra che siano quasi pronte, vengono di nuovo annullate, e bisogna ripetere tutto daccapo. Alle persone che non hanno la cittadinanza non è concessa la proprietà terriera. Lei ha intestato la terra alle nipoti che però abitano in una città lontana, e anche solo per consegnare un documento delle imposte è costretta a spedirglielo per farselo firmare.

È stata fra quelli internati il giorno stesso in cui è iniziata la guerra del Pacifico. Nella sua cella erano in nove, e nessuna si dispiacque del fatto che la marina giapponese si fosse fermata a Pearl Harbour e non arrivasse a invadere il territorio americano. Nell’eventualità di uno sbarco giapponese pensava che si sarebbe sacrificata volentieri, e non le importava che il suo corpo fosse dilaniato dalle bombe dei suoi connazionali. Eccitatissime, ormai decise fermamente a morire, coscienti che i giapponesi non avrebbero esitato ad attaccare la loro cella, ciascuna pensò che la propria morte sarebbe di certo passata alla storia. Se il suicidio fosse stato necessario, avevano deciso di morire impiccandosi tutte insieme. Poiché nella cella non vi erano corde, si sfilarono le calze e fecero un corda sottile con il filo.

Adesso ha un televisore. Ora che i figli sono diventati indipendenti e si sono allontanati, riversa tutto il suo affetto su un volpino di Pomerania di cinque anni. È un cane tranquillo; se gli ordina di stare a cuccia, dorme per tutto il tempo nella sua cesta, avvolto in una coperta imbottita. Quando il cane ha compiuto cinque anni, le figlie e le nuore gli hanno spedito un regalo di compleanno. Lei ha scattato una foto ricordo abbracciando il cane avvolto in un ampio kimono.

Mishima Yukio 

(1925-1970)

Traduzione di Maria Chiara Migliore.

“Preludio” da: La coppa di Apollo, Milano, Leonardo, 1993, pp. 19-20.

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Mishima Yukio non ha certo bisogno di presentazioni. Forse meno conosciuto è il diario-reportage del suo viaggio del 1951 negli Stati Uniti, in Brasile e in Europa, un viaggio per il quale aveva avuto non poche difficoltà ad ottenere il permesso di uscire dal Giappone, allora ancora sotto l’occupazione militare alleata (degli USA, in effetti). Gli scritti legati a quel viaggio sono stati pubblicati in Italia nel 1993, e da quel volume, La coppa di Apollo, traggo questo intrigante ritratto di donna.