Al pittore Seiho Takeuchi
Uno dei principi della setta Zen è che le grandi Verità sono ineffabili.
Non possono essere insegnate, si comunicano all’anima per una specie di contagio. Un ragionamento sarà sempre neutralizzato da un altro ragionamento, ma il tumulto in fondo al nostro cuore non potrà resistere a lungo contro il silenzio, né l’acqua contro il riflesso. Ci consigliano di ascoltare e se viene prospettato ai nostri occhi un punto di vista che ci insegni a non cambiare posizione per un minuto, sarà stata seminata in noi l’idea di immobilità. Il male è uno stato di isolamento e di violenza; non riusciremo a restarci più di quanto il la non si prolunghi sui violini quando l’elemento piacevole a poco a poco gli venga sottratto dal flauto.
E quel mattino di gennaio a Kyoto, mentre andavo a visitare, nel recinto del vecchio giardino solitario di Ryuanji [sic], quel “paesaggio” semplice fatto di 15 pietre e di sabbia, che si ritiene rappresentare non so quale favola infantile di pantere e di tigri (la tigre sarebbe suggerita piuttosto dal disegno regolare che fanno i denti del rastrello, quelle increspature del mare quando il vento lo fa sembrare un giardino coltivato intorno a tre isolotti che sono come la firma e il sigillo e lo stemma scolpito dell’artista sulla superficie della pagina) io so bene che qui c’è stata soltanto un’astuzia dell’eremita defunto ad attirarmi per quella strada cosparsa di rami morti; l’insidia alla mia sinistra era quella dello stagno così puro che non saprebbe sfuggirgli neanche il più piccolo ramoscello degli alberi spogliati dall’inverno né il colloquio col niente di quei trofei lacerati di porpora bruna che è diventata la chioma suprema della foresta inclinata verso quel contemplatore mortificato fra i suoi argini penitenti. Anch’io per quel poco che il mio piede ha sostato sul ponte di pietra, il cui livello fa chiudere idealmente il cerchio sotto di me, sento che mi è stata trafugata un’impressione dal ghiaccio di questo inverno incorruttibile e che mi sono fatto prendere un pegno. Mi circondano alberi sepolti nel muschio come se il mondo intorno a me fosse condannato alla caducità ed entro nell’eternità attraverso il portico della vecchiaia. Davanti a me c’è soltanto la foresta e i primi gradini di una scala che sale, e quel tempio tarlato sotto i rami più che al riposo è il richiamo alla fine improvvisa, opacità del supremo testimonio seduto qui per l’addio e vinto dalla decrepitezza.
Tutta l’arte degli antichi pittori giapponesi (che quasi sempre erano dei religiosi) si spiega se si comprende che il mondo visibile era per loro un’allusione perpetua alla Saggezza, come quel grande albero laggiù che dice no per noi al male con una lentezza inesprimibile. Allusione e non illusione. E se noi leggiamo nei Libri Sacri che la Sapienza è appostata ad attenderci anche nei posti inverosimili come gli angoli delle strade e i quadrivi delle scuole e dei tribunali, quanto di più naturale incontrarla al sorgere del sole, vicino a quell’aratro mezzo affondato nel solco, sotto quell’albero tremante di freddo nella corazza di neve e di vetro? Anche nelle parti più materiali della nostra natura c’è qualcosa che si amalgama interiormente con la verità come sulle lastre coreane la polvere d’oro col nero animale. Come quella vista presenta al nostro sguardo diretto soltanto una superficie opaca e confusa e aspetta che si siamo voltati per dissolvere dietro di noi il suo segreto e colpirci al fianco col suo dardo più acuto, così l’artista offrendoci un fiore, una barca, un uccello, si riferisce a un mondo più sospeso che assente congiunto a quello che passa e che non potrebbe essere abitato da nessun altro. Come chi va a caccia con le trappole indica un nascondiglio con un certo segno fatto sopra un albero col suo coltello. Niente ci attrae come quella zampa di martin pescatore disegnata con la punta più fine del pennello e quel tratto affilato e sottile!
E ora guardate quel rotolo abbagliante che si svolge davanti a noi! È il mare fra le isole. O moralisti, a che pro tante spiegazioni e teorie e minacce, quando sappiamo che la lordura in noi è inconciliabile con lo zaffiro? Che il colore e il profumo liberano i nostri sensi invece di renderli schiavi? È soltanto un’anima purificata che saprà comprendere l’odore della rosa.
(gennaio 1925)
Paul Claudel
(1868 -1955)
Traduzione di Maria Antonietta Di Paco Triglia.
Da: L’uccello nero del Sol Levante (L’Oiseau noir dans le soleil levant, 1965), Rimini, Il Cerchio, 1996, pp. 57-58.
🎌🇫🇷🎌
Figura complessa di poeta e diplomatico dalla spiccata connotazione cattolica (dopo la celebre “conversione” religiosa avvenuta nella cattedrale di Nȏtre-Dame, a Parigi, il giorno di Natale del 1886), Claudel era un profondo conoscitore dell’Asia, essendo stato console francese in Cina per 15 anni e poi, finalmente, ambasciatore di Francia nell’agognato Giappone, dal 1921 al 1927. Quest’ultima esperienza influenzò non poco l’opera del Claudel drammaturgo (con l’introduzione nei suoi testi teatrali di alcuni elementi del teatro nō e del kabuki) e l’opera del Claudel poeta, ponendosi all’origine, in particolare, della raccolta Cent phrases pour éventails, costituita da 172 componimenti poetici calligrafati dallo stesso Claudel, ciascuno dei quali è accompagnato da due kanji tracciati dal pittore giapponese Arishima Ikuma, una raccolta che fa suo il dialogo costante tra segno e parola scritta proprio della tradizione nipponica. Consiglierei, a chi volesse approfondire il rapporto privilegiato fra il poeta e il Giappone la lettura del libro di Michel Wasserman, D’or et de neige. Paul Claudel et le Japon, Paris, Gallimard, 2008.