Solo con la sera e l’arrivo del buio la lettura si trasforma in pura gioia.
Il resto della giornata lo è, ma è piacere troppo breve, come un cerino acceso e subito consumato. Sono attimi rubati all’intervallo di pranzo, o al viaggio verso Milano, sul treno, al mattino, quando lo spazio vitale del pendolare si allarga e tirare fuori un libro dalla borsa non è troppo complicato.
O nel tardo pomeriggio, quando un posto seduti sul treno del ritorno lo si trova, se si arriva per tempo alla stazione e allora, in successione, estraggo dalla borsa libro, occhiali e l’indispensabile Ipod, da cui Stravinskij o Piazzolla, a volte i cari vecchi Pink Floyd, i trascinanti Têtes Raides o l’adorato Miles Davis escono, a fare da amichevole e protettiva barriera alle conversazioni telefoniche moleste che mi circondano.
Poi però le luci della città che si avvicina e i movimenti sui sedili vicini mi ricordano che è ora di interrompere. Ennesima frustrazione della giornata se le pagine che ho davanti mi stanno catturando…
Così, è la notte il tempo caro della lettura.
E i libri più cari sono i miei livres de chevet: alcuni restano sul comodino per anni,
quasi un rito apotropaico. Li sfioro con lo sguardo amorevole sistemando i cuscini.
Mi basta averli lì e un giorno, certo, li rileggerò. Ma anche se non capiterà,
poco importa. Continuerò a portarmeli dentro.
Altri invece si susseguono a un ritmo veloce – il ritmo dato dalla mia voracità, una voracità, ben inteso, discriminante – ma se passano dal comodino, vuol dire che hanno superato già un giudizio severo che li risparmia del destino di essere maltrattati fra borsa e treno: ho già deciso che non lo meritano.
Sono fatta così: se mi innamoro di un paesaggio o di una città, se mi affascina un’opera dell’ingegno umano, sia musica, film, manufatto artistico o libro, mi piace condividere la scoperta.
Sarà così in queste pagine, se vorrete. Basterà allungare la mano verso il comodino.