Estraendo dalla sua busta la piccola rivista, la sfogliò per rileggervi la propria poesia:
Quanti cuori ci saranno dentro di me?
Due, quattro, sei, otto… nove o dieci…
No, poiché quei due si assomigliano.
Novanta o cento…
Ma no, a volte son diversi.
Forse mille…
Ma no! Perché ne nasca uno,
occorre qualcosa di … diverso!
Ah, con questi innumerevoli cuori,
cambio più rapidamente della luce!
Non è strano, comunque, che con un cuore
che cambia all’infinito,
noi viviamo in un mondo che crediamo finito?
“Veramente non vedo dove vada a parare…”, aveva giudicato uno dei membri della rivista alla lettura di questa poesia, mentre un altro, una donna, aveva osservato, con un sorrisetto ironico: “Piuttosto infantile…”. “Diciamo: né bene, né male…”, aveva tranciato Kawabe, l’editore, sistemando con gesto femminile una ciocca dei capelli boccolosi che gli ricadevano sulle spalle, con l’aria di non aver mai preso sul serio ciò che Haruta poteva produrre in materia di poesia. […]
Da due anni che prendeva parte alle attività de “L’isola blu”, [Haruta] vi aveva fatto comparire sei poesie, di cui nessuna aveva mai ricevuto il minimo elogio. Seduto sulla scomoda sedia del ristorante cinese, ricordò sottovoce a se stesso la prima:
Io non avevo domandato nulla, e poi, ecco, dieci anni,
mi hanno sbattuto fuori
nel bel mezzo del mondo,
un luogo triste e solitario e pieno di tumulto.
Sono stato pagato al prezzo della mia ricchezza,
e ho conosciuto il denaro con le sue servitù;
ho mentito, e ho riso senza averne voglia,
mi sono arrabbiato quando non avrei dovuto
e malgrado la mia fatica, ho mostrato buonumore
e poiché tutto andava bene, mi sono finto malato.
Ma cos’è questo mondo
se occorre agire sempre così?
Via, meglio non pensarci più.
Mi vado a coricare
poiché domani bisogna lavorare di nuovo.
Ecco, lì dentro scoprì che qualcosa non lo soddisfaceva; sì, mancava qualcosa…
Si ricordò le parole di Kawabe, quelle che gli lanciava ogni volta che Haruta gli presentava uno dei suoi componimenti poetici:
“Non bisogna credere che mettendo nelle frasi ciò che ti passa per la mente farai della poesia! Va bene alla scuola elementare! E le tue poesie, mio piccolo Satomi, sono poesie da scolaro!”
Ma Haruta, lui, credeva che erano proprio i bambini i veri poeti.
Miyamoto Teru
Da: Miyamoto Teru, Les Gens de la rue des Rêves (Yumemidōri no hitobito, 1986), Arles, Editions Philippe Picquier 1993. Traduzione dal giapponese di Philippe Deniau. Mia traduzione “di servizio” dal francese.
***
Un poeta dilettante e di scarsa fortuna si muove fra i personaggi bizzarri e di grande umanità in una viuzza della shitamachi di Ōsaka. Le vicende tragicomiche degli abitanti di questo piccolo budello dal nome poetico di Yumemidori, “via dei sogni”, di cui Haruta è testimone, ci raccontano dell’umanità che vive in un quartiere popolare di Ōsaka, la città amatissima di Miyamoto Teru, nato a Kōbe nel 1947 ma innamorato di Ōsaka e della sua gente.
Un gustoso romanzo a episodi che mi ricorda molto i capolavori di Ihara Saikaku, questo: le atmosfere della Ōsaka popolare e il dialetto della città (inevitabilmente destinato a scomparire nella traduzione) sono i veri protagonisti della scrittura di Miyamoto, insieme alla folla di personaggi – eccentrici a volte, a volte buffi, a volte tormentati, ma sempre ritratti con arguzia e empatia – che si muovono fra casa e bottega nel breve perimetro di una strada che racchiude un mondo di straordinaria umanità.