Japonismes. Letture per farci compagnia. Lafcadio a Kyōto.

Tokuriki Tomikichiro, Hanami notturno, dalla serie Trenta vedute di Kyoto, 1930 circa.

 

Era stato stabilito di celebrare in primavera l’undicesimo centenario della fondazione di Kyoto;* ma lo scoppio della peste fece rinviare i festeggiamenti all’autunno, e la celebrazione cominciò il 15 del decimo mese. 

Piccole medaglie commemorative di nichel, fatte per attaccarsi sul petto come decorazioni militari, furono messe in vendita a mezzo yen. queste medaglie davano a chi le portava speciali ribassi su tutte le ferrovie e linee di navigazione giapponesi, ed altri desiderabili privilegi, come la libera entrata in meravigliosi palazzi,| giardini e tempî [sic]. Il 23 ottobre mi trovai io stesso in viaggio per Kyoto col primo treno della mattina, affollatissimo di gente desiderosa di vedere la grande processione storica annunziata per il 24 e 25. 

Molti dovevano viaggiare stando in piedi, ma la folla era di buon umore e gaia. Molti dei miei compagni di viaggio eran geishe [sic] di Osaka che andavano alla festa. Esse si divertivano cantando canzoni e sonando il ken con una certa maschia familiarità, e le loro moine da gattine ed i loro lieti gridi tenevano tutti in allegria. una di loro aveva una voce straordinaria con la quale poteva cinguettare come un passero… 

La prima sorpresa con la quale Kyoto accolse i suoi visitatori fu la bellezza delle sue decorazioni festive. Ogni via era stata apparecchiata per l’illuminazione. Avanti ad ogni casa era stato piantato un nuovo sostegno di legno non dipinto, al quale era sospesa una lanterna con speciali disegni. V’eran pure bandiere nazionali e rami di pino su ogni entrata. Ma le lanterne facevano l’incanto della mostra. In ciascuna sezione della strada esse erano della medesima forma, e fissate esattamente alla stessa altezza, e protette dal possibile cattivo tempo dalla stessa foggia di covertura. Ma nelle vie differenti le lanterne erano differenti. In alcune strade essere eran grandissime; e mentre in alcune vie ciascuna era protetta da un piccolo padiglione di legno, in altre ogni lanterna aveva un ombrello giapponese di carta aperto e fissato sopra. 

Non v’era spettacolo nel giorno del mio arrivo, ed io occupai un paio d’ore deliziosamente all’esposizione dei kakemono nel palazzo imperiale d’estate, chiamato Omuro Gosho. Non come la mostra d’arte professionale che io avevo visto in primavera, questa rappresentava principalmente l’opera degli studenti; ed io la trovai incomparabilmente più originale ed attrattiva. […]

Dopo aver guardato tutte le pitture visitai il grande giardino solo da poco aperto al publico. Si chiama il Giardino della caverna dei Geni. (Almeno “geni” è presso a poco l’unica parola che si può usare per tradurre il termine “Sennin”, per il quale non v’è un nostro vero equivalente; i Sennin, creduti di vita immortale, ed abitatori di foreste e caverne, sono trasformazioni mitologiche giapponesi o piuttosto cinesi dei Rishi indiani). Il giardino giustifica il nome. Sentii come se veramente fossi entrato in un luogo incantato. È un giardino a paesaggio, – una creazione buddhista, appartenente a ciò che ora è semplicemente un palazzo, ma che fu una volta un monastero, costruito come un ritiro religioso per imperatori e principi stanchi delle vanità terrene. La prima impressione che si riceve dopo aver oltrepassato la porta è quella d’un grande antico parco inglese: gli alberi colossali, l’erba rasa, i grandi viali, il fresco e dolce senso di verdura, tutto risveglia memorie d’Inghilterra… 

Considerato come opera umana solamente, il giardino è una meraviglia. Solo l’esperto lavoro di migliaia avrebbe potuto riunire insieme la semplice sua ossatura, il prodigioso scheletro roccioso del suo piano. Una volta formato, interrato e piantato, la natura fu lasciata sola a compiere il miracolo. Essa lavorando per dieci secoli ha sorpassato – no, indicibilmente magnificato – il sogno dell’artista. Senza esatta informazione, nessuno straniero, non abituato alle leggi ed allo scopo dei costruttori di giardini giapponesi, può imaginare che tutto ciò ebbe un disegnatore umano un migliaio d’anni fa: l’effetto è quello d’una parte di foresta primeva, preservata intatta dall’inizio, e murata dal resto del mondo nel cuore dell’antica capitale. Le facce delle rocce, le grandi radici fantastiche, gli ombrosi viali, i pochi antichi monoliti incisi, sono tutti tappezzati dal musco dell’età; e le rampicanti hanno sviluppato steli larghi un piede, che traversano gli spazi come serpenti mostruosi. Alcune parti del giardino rammentano vivamente alcuni aspetti della natura tropicale delle Antille, benché manchino le palme, l’intrico tramato e tessuto delle liane, i rettili, ed il sinistro silenzio diurno delle foreste dell’India occidentale. Il gioioso strepito della vita degli uccelli in alto è stupefacente, e proclama grato al visitatore che quelle selvatiche creature di questo paradiso monastico non hanno mai avuto male o paura dagli uomini. Arrivato infine, con rammarico, alla porta d’uscita, io non potetti non sentirmi invidioso dei suoi custodi: solamente esser servo in tal giardino è un privilegio degno di preghiere per ottenerlo… 

Passai la serata girovagando per le vie illuminate, visitando alcune delle innumerevoli mostre. […]
Quando mi decisi a tornare, le lanterne erano spente, le botteghe eran chiuse; e le vie s’oscurarono intorno a me prima che giungessi all’hotel. Dopo la grande luce dell’illuminazione, la malia delle mostre, il gioioso tumulto, il rumore simile a quello del mare prodotto dai sandali di legno, questa subitanea venuta d’annullamento e di silenzio mi fece sentire come se la prima impressione fosse stata irreale, – un’illusione di luce, di colore e di rumore fatta per ingannare, come nelle storie delle volpi fatate. Ma il rapido svanire di tutto ciò che compone un festival notturno giapponese presta un sottile filo al piacere del ricordo: non v’è lento languire di fantasmagoria, e la sua memoria è così tenuta libera dalla più lieve tinta di malinconia. 

 

Lafcadio Hearn

(1850-1904)

Traduzione d’epoca di Giulio De Georgio (1922).

Da: Spigolature nei campi di Buddho, 1897.

Pubblicato per la prima volta in Italia da Laterza nel 1922.

*Si tratta del 1894.

 

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Lafcadio Hearn non ha certo bisogno di presentazioni. In questa vivida descrizione di un giorno di festa a Kyōto sembra rivelare tutto quel talento di reporter che lo aveva condotto fino in Giappone. Non ho voluto modificare l’italiano datato della traduzione per mantenere l’atmosfera “giapponista” d’inizio secolo.