Sono un animale urbano, non posso nasconderlo. Lasciare Tōkyō è sempre penoso. Si parte con la sensazione di aver mancato a un appuntamento, di aver dimenticato qualcosa. Sì, la si lascia con un certo timore. Che non la ritroveremo, che qualcosa – e chissà cosa, poi – ci impedirà di tornarci. Che non sarà rimasta ad aspettarci ma che, avanzando nella sua corsa, ci avrà lasciato inesorabilmente indietro. Ma poi ci si ricrede e la si lascia con un sorriso. Dopo tutto ritorneremo, sì, ritorneremo.
Così, con un leggero turbamento, arriviamo finalmente a Fujikawaguchiko. Il Fujisan così vicino: lo volevamo così. Magari non con le torme di turisti scaricate dal treno giunto da Shinjuku e che si accalcano fra i binari e i cancelli della stazione per pagare il supplemento richiesto a chi possiede il Japan Rail Pass. Ci accoglie un disordine che infastidisce e che ci fa pensare, ed è la prima volta, a un minimo di disorganizzazione. Non ci si aspettava così tanti turisti a Fujikawako? Forse. L’impressione è di una località di passaggio, di un turismo di passaggio, di caos. Ed era il luogo che avevamo scelto come sosta di assoluto relax, in mezzo a un paesaggio di quiete e bellezza…
Ma per fortuna abbiamo le nostre risorse, i nostri piccoli espedienti e al solito, andiamo là dove altri non vanno. A piedi. Lungo la riva del lago, dentro a piccole strade che si incuneano fra i kura, magazzini di foggia antica e le fattorie, fra orti e giardini, attenti a muoverci uno dietro l’altro perché incombono le auto e i bus e non c’è nessun marciapiedi. Ci sembra di perderci, alla ricerca come siamo di un antico santuario shintō, luogo di pellegrinaggio da tempo immemorabile e dedicato alla mitica figura della principessa Sakuyahime no mikoto.
Credevamo di esserci persi e invece ci ritroviamo improvvisamente davanti a un tempio buddhista, dagli edifici scuri, antichi e solitari. Non un’anima, non un rumore se non quello del canto degli uccelli. Il silenzio.
Ma subito dietro ritroviamo la strada del lago e d’improvviso, raggiungiamo la meta della nostra lunga passeggiata solitaria, il venerabile santuario.
Si alza dal lago un vento carico di pioggia. Sulla riva, poco lontana, una piccolissima caffetteria la cui vetrata ci permette di guardare l’acqua, i ciliegi che timidamente stanno sbocciando (anche se alla stazione campeggiava un cartello con la scritta: “I ciliegi non sono ancora sbocciati. Ancora due o tre giorni di attesa previsti.”) e gli uccelli che arrivano proprio sotto la finestra, attirati dai posatoi sistemati allo scopo. Volteggiano, come le foglie e le erbe che turbinano in preda al vento. Felicità è allora stare riparati gustando un anmitsu ricco di frutta fresca, gelato, gelatina e dolci fagioli azuki. Felicità è bersi un caffè e subito dopo un tè verde, chiacchierando e ascoltando le chiacchiere della padrona con gli altri clienti, tutti giapponesi. Dove saranno gli altri turisti? Sui pulmann e i bus che instancabilmente percorrono la strada servendo i vari punti di interesse del lago. Pochi camminano per lunghi tratti come facciamo noi.
Improvvisamente sembrano tutti scomparsi. Sono sono le 5 del pomeriggio ma tutto chiude. Chi resta in giro si affretta verso la stazione per trovare almeno un caffè, un ristorante per la cena.
Di fronte alla stazione entriamo in un ristorante tradizionale dove si cucina la specialità locale, gli hōtō udon, tagliolini fatti a mano e cotti con verdure selvatiche della zona in un brodo di miso, portati in tavola una pentola in ferro quasi incandescente. Una squisitezza.
Intanto il Fujisan è scomparso dietro a una cortina di nubi. E incombe la sera. La sera. La pioggia.
Lo ritroveremo l’indomani. Immenso, nella bellezza di un mattino terso.
Il tempo di un arrivederci.