Dovevo cercarmi al più presto un lavoro. Ma come avrei fatto a trovare un impiego in quel posto sperduto tra le montagne? C’era una lista d’attesa infinita persino per lavorare come addetto al bungee jumping.
Mentre mi spremevo le meningi alla ricerca di una soluzione, mi si accese una lampadina: e se sfruttassi il granaio per farne un piccolo ristorante? Più che di un vero e proprio granaio, si trattava di una solida e ampia casa prefabbricata di legno che Cementino* aveva fatto trasportare lì dopo averla usata a scopo espositivo. Era un peccato continuare a utilizzare quella costruzione come semplice deposito. E io, oltretutto, non sapevo far altro che cucinare. Sì, era quella la mia unica certezza: essere brava in cucina. Se il mio desiderio di aprire un ristorante in quel villaggio fra i monti si fosse realizzato, avrei finalmente avuto la possibilità di vivere una vita concreta, fatta di cose tangibili. Mentre quei pensieri si affastellavano nella mia mente, un magma incandescente mi veniva su dal centro del corpo. La mia lingua, in particolare, serbava un autentico tesoro: il kinpira di farfaraccio con umeboshi, lo stufato di radice di bardana all’aceto, il barazushi stracolmo di verdure, il chawanmushi ricco di dashi, il budino di latte fatto solo con l’albume, i manjū con farina di soia tostata e tante altre ricette prelibate ereditate dalla nonna.
E nel mio corpo, ovvero nel sangue, nella carne e sotto le unghie, scolpita come gli anelli di un albero, c’era tutta l’esperienza accumulata nei posti in cui avevo lavorato: un bar, un izakaya, un ristorante di yakitori, un caffè alla moda, un ristorante organico e infine quello turco.
Se pure mi avessero strappato di dosso fino all’ultimo indumento e fossi rimasta completamente nuda, sarei stata sempre e comunque capace di cucinare. Avevo ormai preso la decisione della mia vita.
“Ti prego” scrissi** alla fine, sul retro del volantino che porsi ossequiosamente a mia madre, “concedimi in affitto il granaio. Ti prometto che ce la metterò tutta”. Mi misi dunque in ginocchio, i palmi delle mani sul pavimento, e mi prostrai con devota umiltà ai suoi piedi.
Quando risollevai il capo e allungai lo sguardo sul volantino, mia madre aveva scritto nella sua bella calligrafia fluida ed elegante: “D’accordo. Va’ fino in fondo e non tirarti mai indietro”.
Attese finché fu certa che avessi letto la risposta, poi si diresse sbadigliando verso la camera da letto, pronta a immergersi di nuovo nel sonno.
Fu così che decisi di diventare cuoca nel mio tranquillo villaggio tra i monti. Mia madre mi mise a disposizione il capitale iniziale, a patto che glielo restituissi con interessi altissimi, degni di una società finanziaria. Gestire un ristorante tutto mio era il sogno più grande che avessi mai avuto. La ferita che mi si era aperta nel cuore dopo l’abbandono del mio fidanzato e la perdita di ogni avere era incommensurabile, e forse non si sarebbe più rimarginata, ma adesso avevo almeno l’opportunità di compiere un significativo passo in avanti. Non avrei mai immaginato, fino ad un giorno prima, che le cose avrebbero potuto prendere una piega tale. […]
Attesi che spiovesse e ne approfittai per fare un giro nei paraggi. Non avevo in mente altro che il ristorante, e nuove idee mi affioravano una dopo l’altra. Mi sembrava impossibile, eppure era tutto vero. Ero decisamente su di giri, non avevo affatto sonno, e inoltre c’era quell’albero che morivo dalla voglia di rivedere.
M’incamminai lungo il sentiero che s’incuneava nella foresta e raggiunsi di corsa il luogo a cui erano legati tanti miei ricordi: lì, sulla sommità di una collinetta, si ergeva il mio splendido albero di fichi. Nel corso degli ultimi dieci anni non mi era mai capitato di desiderare, nemmeno una sola volta, di rivedere mia madre; avevo invece cercato più volte nei miei sogni quel bellissimo albero. Da ragazzina non avevo mai riposto fiducia in mia madre, né tanto meno nelle compagne di classe, ma soltanto nella natura impareggiabile di quelle montagne.
A venticinque anni non ero così leggera come quand’ero bambina, eppure riuscii lo stesso ad arrampicarmi sull’albero. In dieci anni il tronco si era fatto più grosso, e anche i rami si erano irrobustiti. Avevo la netta sensazione che anche lui fosse molto felice di rivedermi. Il suo fusto, quando vi accostai l’orecchio, era caldo. Dai rami, simili a quelli di un albero di Natale colmo di lussuosi addobbi, pendevano turgidi frutti verde giada. Allungai il braccio e provai a tastarli con la punta delle dita: erano duri come la schiena di un bimbo accovacciato, le braccia strette attorno alle ginocchia.
Un esile strato di nubi semi trasparenti sembrava attaccato al cielo a mo’ di pellicola: mi faceva venire in mente la buccia sottile delle cipolle. Gli alberi, le piante e i fiori della foresta brillavano sontuosamente dopo la pioggia abbondante.
Ogawa Ito
(n. 1973)
Traduzione di Gianluca Coci.
Da: Il ristorante dell’amore ritrovato (Shokudō katatsumuri, 2008),
Vicenza, Neri Pozza, 2010, pp. 27-32.
*Amante della madre della protagonista.
**In seguito allo shock dell’abbandono del suo compagno la protagonista ha momentaneamente perso la voce.
🍘🍣🍘
Un romanzo lieve eppure rigenerante, che invita a gustare i piaceri della vita e a credere nelle proprie capacità: è una storia terapeutica di resilienza, quella che ci racconta Ogawa con questo romanzo le cui pagine ci confermano la grande rilevanza che ha la cucina nella concezione dell’esistenza dei giapponesi, ma anche nella nostra, vero? Il ristorante dell’amore ritrovato è frutto di una scrittura leggera e delicata (la sua autrice, del resto, ha una solida fama come scrittrice di libri per bambini) che in tempi come questi ci scalda e ci consola, mentre presenta il cibo ben preparato come una medicina per il nostro malessere, capace di curare i nostri corpi ma anche i nostri cuori.
A Leda.