Un gatto per amico.

Un gatto a Enoshima. Fra le camelie di quella nostra primavera. Aprile 2013.

 

Dopo circa venti minuti di treno sulla linea ferroviaria privata che parte da Shinjuku diretta verso sud-ovest, si scendeva in una piccola stazione dove i rapidi non si fermano e si camminava verso sud per dieci minuti, fino ai piedi di una modesta altura; si attraversava la strada che passava in direzione est-ovest sulla cima del rilievo, unico punto un po’ trafficato, e da lì in poi si iniziava a ridiscendere; si percorreva per circa settanta metri una via piuttosto ampia in lieve pendenza e si trovava, sulla sinistra, una casa con un ingresso vecchio stile e un muro di recinzione in malta decorato, nella metà inferiore, da una fila di mezze canne di bambù disposte in verticale. Infilandosi nella stradina sinistra prima del cancello, la recinzione diventava più modesta: la stradina costeggiava uno steccato di legno.

L’abitazione che avevamo preso in affitto era una casetta isolata all’interno dell’ampio appezzamento di terra delimitato dal muro e dallo steccato. Percorso metà dello steccato, c’era un cancelletto di assi di legno che fungeva da accesso di servizio per i proprietari e da ingresso per gli affittuari. Come un occhio cui nessuno faceva caso, il buco nel legno si apriva nello steccato subito dopo il cancelletto.

Una volta passati lì davanti, ignari di quanto la propria immagine si proiettasse nitida sulla finestra praticamente nascosta al di là dello steccato, si incappava nel muro di mattoni della casa che aggettava da sinistra e si girava a destra con un angolo piuttosto stretto. Ma non si aveva neanche il tempo di rendersene conto, che subito ci si trovava di fronte a una casa con il tetto coperto dalle fronde di un enorme olmo giapponese e si girava di nuovo bruscamente a sinistra. Proprio perché questi repentini cambiamenti di direzione lo facevano somigliare al classico disegno della saetta, scherzando, lo avevamo battezzato vicolo fulmine. 

L’ombra dell’olmo si allargava sulla stradina. Era un albero molto antico ed è probabile che il Comune lo avesse designato pianta protetta: era chiaro che, quando avevano costruito la casa, l’avevano appositamente progettata in modo da inglobarne il tronco.

I rami si allungavano senza ostacoli crescevano rigogliosi, concedendo la benedizione della loro ombra anche alla parte orientale del giardino della casa principale e alla casetta degli affittuari, eretta nell’angolo di nord-est. Però, in autunno inoltrato, le foglie che cadevano fitte strappavano frequenti sospiri all’anziana padrona di casa.

Un giorno un gattino era venuto a infilarsi nel vicolo fulmine e, qualche tempo dopo, il bambino di circa cinque anni che abitava nella dimora abbracciata all’olmo aveva deciso di raccoglierlo e allevarlo.

La sua casa confinava con il lato est della nostra, ma visto che era arretrata di tanto quanto era largo lo zigzag del fulmine, non avevamo occasione di incontrarci nei nostri andirivieni. Il lato che affacciava sul nostro giardino, poi, era completamente murato a parte una piccola finestra per il ricambio dell’aria, chiuso da una grata. E soprattutto, dato che eravamo solo affittuari di una casetta nell’angolo di un ampio terreno, non sentivamo molto la relazione di vicinato.

Ci arrivavano spesso le grida acute del bambino, quando giocava allegro nella zona in cui la stradina curvava, ma noi passavamo le notti alla scrivania e i nostri orari erano troppo diversi perché lo incontrassimo. Però, in una tarda mattinata, mentre facevamo colazione, ci arrivò attraverso lo steccato la sua voce che diceva distintamente: – Questo gatto è mio! – Da qualche giorno avevamo iniziato a far caso al gattino, che trotterellava nel nostro giardino non più grande di uno stenditoio: per cui, nel sentire le parole del bambino, ci scappò un sorriso.

 

Hiraide Takashi

 

Da:

Il gatto venuto dal cielo, traduzione di Laura Testaverde, Torino, Einaudi, pp. 3-4.

Una piccola storia lieve che comunica serenità. Che si legge come una pausa piacevole, sulla panchina di un parco a primavera, al tavolino nella terrasse di un caffé, nella città che – sì – amiamo tanto, un tè davanti e qualche dolcetto, senz’altra pretesa che un po’ di quiete.

 

Dedicato alla mia amica Marta.