Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Neve sul mare.

Il mare d’inverno. Odawara, 30 novembre 2015.

 

Scesi dall’autobus all’estremità occidentale della baia. Da lì cominciava il promontorio. C’era un sentiero stretto che seguiva il mare, e una capanna per riporre le reti e gli utensili da pesca. Il sentiero vi passava dietro. Le assi della capanna, sotto l’azione del sale e del vento, erano diventate quasi bianche, e tutte sconnesse. Era lo stesso spettacolo che vedevo ogni anno quando passavo di lì. Non era cambiato nulla.

Non c’era vento, ma faceva freddo. Seguendo il sentiero entrai in un bosco di pini, e arrivai in una piccola radura. L’erba era marcita. Il terreno impregnato d’umidità era molle e le suole delle mie scarpe vi affondavano. Oltre la radura, il sentiero si addentrava nuovamente nel bosco di pini. Lì il terreno che andavo calpestando era asciutto e le scarpe non vi sprofondavano. Camminai finché giunsi finalmente alla scoscesa riva rocciosa.

L’atmosfera era compressa tra pesanti nuvole scure e un mare dal colore cupo, e l’aria che inalavo mi sembrava particolarmente densa e fredda. Non c’era vento. Non si vedeva un’imbarcazione. Facevo fatica a respirare.

Poi cominciò a nevicare. All’inizio i fiocchi di neve volteggiavano leggeri, come nascessero uno dopo l’altro dall’aria stessa, ma presto divennero grossi e pesanti e coprirono tutto il paesaggio intorno, non sentivo più la punta delle mie dita strette alla roccia.

Mi sedetti sopra un alto masso, e guardai il mare. Ogni volta che tornavo lì le condizioni del tempo erano diverse, ma il paesaggio sembrava non cambiare mai. Il terzo anno mi era venuta in mente l’espressione “osservazione atmosferica da un punto fisso”, e da allora a ogni mio ritorno guardavo attentamente i luoghi circostanti, il mare, e la centrale termica sulla riva opposta. Mi faceva sempre esattamente la stessa impressione dell’anno precedente. C’era il mare, c’erano gli scogli, una piccola spiaggia, dietro di questa la parete rocciosa e al di sopra campi coltivati a perdita d’occhio. Che cosa venisse coltivato, non lo sapevo. Mi ero anche arrampicato su per la parete, ma in marzo i campi erano una desolazione.

La neve a poco a poco aveva riempito il cielo, i camini della centrale termica non si vedevano più. Le rocce erano fredde. Tutto intorno era freddo. Tutto il paesaggio visibile da lì, ogni cosa in esso contenuta, aveva preso la temperatura della neve, e il freddo si era propagato uniformemente ovunque. Soltanto il mio corpo, per la temperatura, mi dava la sensazione di distaccarsi dall’ambiente. In quel luogo io ero un corpo estraneo. Eppure attraverso i vestiti la temperatura della mia pelle si andava avvicinando lentamente a quella della neve. Se fossi diventato parte di quella roccia, forse la durata di un giorno mi sarebbe parsa un attimo, e quella di un anno, un’ora.

La pelle del mio viso cominciava a indurirsi. Anche se solo in superficie, appena appena, la natura del mio corpo si stava amalgamando a quella della roccia. Rimasi seduto, abbracciandomi le ginocchia, a guardare i fiocchi di neve che uno dopo l’altro venivano assorbiti dal mare.

Dalla cima del cielo al fondo del mare si tendevano migliaia di milioni di invisibili fili di vetro, lungo i quali scendevano scorrendo a uno a uno i fiocchi di neve. Tutte le ossa e le articolazioni del mio corpo erano pietrificate, i muscoli congelati, e solo le mie viscere sembravano conservare un residuo di calore. Resistetti alla voglia di muovermi. Se volevo diventare una roccia, dovevo stare fermo.

Mentre guardavo la neve cadere senza rumore e senza fine, mi resi conto che non era questa a scendere. Fu una percezione che folgorò improvvisamente la mia coscienza. Sussultai, come se davanti ai miei occhi qualcosa avesse brillato.

No, non nevicava. Era il mondo sul quale mi trovavo che si innalzava, saliva sempre più in alto nel cosmo saturo di fiocchi di neve. In silenzio, quietamente, costantemente, il mondo continuava la sua ascensione. E io stavo seduto su una roccia posata nel suo centro. Saliva la roccia, saliva il mare intero, con il peso immenso di tutta la sua acqua, senza sollevare una sola onda, e salivo io che lo stavo a guardare. La neve era solo il segno di quell’infinita ascensione.

In quale luogo sarei arrivato, percorrendo quali distanze? L’ascensione sarebbe durata finché la neve non avesse colmato l’aria? Ogni singolo lieve cristallo aveva la facoltà di sollevare in silenzio il mondo? Quasi mutato in roccia, io lo ignoravo. Semplicemente il mondo saliva, lentamente, costantemente. E il mare, convinto che innalzandosi anche solo un po’ di più sarebbe riuscito ad assorbire ancora più fiocchi di neve, si tirava verso l’alto, verso l’alto. Ero rimasto a guardarlo a lungo, fermo, immobile.

 

Ikezawa Natsuki

(n. 1945)

 

Traduzione di Antonietta Pastore.

Da: “Still Life” ( Sutīru Raifu, 1988), in L’uomo che fece ritorno, Torino, Einaudi, 2003, pp. 16-19.

 

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La scrittura precisa, limpida, scabra di Ikezawa sa essere, nella sua natura cristallina inaspettatamente lirica, ed è quello che più affascina in questo scrittore – una delle voci più importanti della narrativa giapponese contemporanea nonché uno dei più autorevoli intellettuali del suo paese – eppure, in Italia almeno, del tutto misconosciuto ( L’uomo che fece ritorno, raccolta di quattro racconti, è l’unica traduzione nella nostra lingua). La passione per la civiltà greca, gli studi di fisica, le molteplici esperienze di lunghi soggiorni fuori del Giappone, la nascita a Hokkaidō e la scelta di stabilirsi a Okinawa: la biografia di Ikezawa permette di cogliere appieno al singolarità di uno scrittore la cui opera, visionaria e rigorosa al tempo stesso, non è esente dallo sguardo carico di meraviglia del poeta.