Il ricordo come dovere, il ricordo come necessità: 27 gennaio.

… Ho vissuto in un tempo di grande ottenebramento del mondo: che nessuno tra gli uomini lo dimentichi, se un giorno m’incontrerà!


2.6.1940 (sera)

ramo e neve

Stanotte non riuscivo a prender sonno e ripensavo e catalogavo nella mente tutti questi divieti che in qualche modo, anche se in misura minima, mi riguardano. E poiché è domenica pomeriggio (da due giorni sta nevicando…) trascriverò qui i divieti di cui riesco a ricordarmi e, dopo averli trascritti, lascerò ancora molto spazio in bianco per gli altri che d’ora in avanti si aggiungeranno alla lista…

Non posso uscire di casa dopo le otto di sera.

Non posso prendere un alloggio indipendente.

Non posso cambiar casa al di fuori dei quartieri di Praga I o V, e sempre in subaffitto.

Non posso frequentare fiaschetterie, caffè, osterie, cinema, teatri e concerti, tranne uno o due caffè per me autorizzati.

Non posso andare nei parchi e nei giardini pubblici.

Non posso andare nei boschi della città.

Non posso allontanarmi dalla cerchia urbana di Praga.

Non posso andare (quindi) a casa mia, a Kutná Hora, e in nessun altro luogo, se non con un permesso speciale della Gestapo.

Non posso salire in tram sulla vettura motrice, soltanto nell’ultimo rimorchio, e, se l’ingresso è al centro, solo nella parte posteriore della vettura.

Non posso fare acquisti nei negozi in altri orari che dalle 11 alle 13 e dalle 15 alle 17.

Non posso recitare in teatro, né svolgere qualsiasi altra attività in pubblico.

Non posso essere membro di alcuna associazione.

Non posso frequentare scuole di sorta.

Non posso avere rapporti con membri della Comunità Nazionale, che a loro volta non dovranno avere rapporti con me, non dovranno rivolgermi il saluto, né fermarsi con me, e dirmi altre parole che quelle strettamente indispensabili (quando vado a comprare qualcosa, ecc.).


27.10.1940


Jiří Orten, poeta, è morto a Praga il 1° settembre 1941, a 22 anni.

Brani di diario tratti da La cosa chiamata poesia, Torino, Einaudi, 1969. Traduzione di Giovanni Giudici e Vladimir Mikes.