Torneremo a Hiroshima. Ripercorreremo gli stessi sentieri nel parco. La stessa strada ci porterà davanti al Genbaku domu. Sarà di sera, nell’ora in cui si fa buio. Sarà tardo autunno e farà freddo. Avremo fra le mani le tante gru di carta piegate all’inizio dell’estate al Japan SunDays. Manterremo la promessa.
Porteremo il nostro ricordo e conserveremo il nostro silenzio.
Quel silenzio attonito che ci coglie ogni volta che torniamo a Hiroshima.
Schegge lucenti e
ceneri bianche sono
come un paesaggio sconfinato.
Il ritmo misterioso dei rossi cadaveri di gente consumata dal fuoco.
È successo davvero? È potuto succedere per davvero?
Il mondo di domani strappato via tutto d’un fiato,
accanto ai vagoni rovesciati del treno
il torso gonfio di un cavallo,
l’odore del fumo che si solleva dai fili elettrici.
HARA Tamiki (1905-1951)
Ridatemi mio padre
ridatemi mia madre
ridatemi i miei nonni
ridatemi i miei figli
ridatemi il mio essere
e coloro che sono i miei legami
ridatemi gli esseri umani.
Finché sono al mondo
in questo mondo di esseri umani
ridatemi la pace
una pace che non possa essere distrutta.
TŌGE Sankichi (1917-1953)
poesia incisa su una stele nel Parco della Pace di Hiroshima
La poesia dopo Hiroshima e Nagasaki
Si può fare poesia dopo Hiroshima? Questo è il quesito che si impose agli intellettuali all’indomani dell’olocausto atomico. Gengo ni zessuru: questa esperienza al di là delle parole, inesprimibile, poteva essere detta? E come?
Nel 1983, fu pubblicato a Tōkyō un compendio in 15 volumi della letteratura della bomba atomica, il Nihon no genbaku bungaku. Il volume n° 13 era dedicato alla poesia e racchiude, fra l’altro quasi 800 haiku su Hiroshima tratti da antologie pubblicate fra il 1955 e il 1969. Questa scelta costituisce solo una piccola parte degli haiku scritti su Hiroshima e Nagasaki. Vittime e testimoni al tempo stesso, alcuni poeti – come SHŌDA Shinoe (1910-1965), KURIHARA Sadako (1913-2005), TŌGE Sankichi (1917-1953) – continuarono a comporre, dando un nuovo significato al fare poesia dopo Hiroshima; altri divennero poeti perché solo attraverso la poesia sentivano di poter restituire dignità alle vittime e perpetuare il ricordo dell’apocalisse che avevano vissuto.
Il più celebre fra i poeti che hanno scritto di Hiroshima è HARA Tamiki (1905-1951). Dopo essere sopravvissuto al bombardamento atomico, Hara si impose di dare testimonianza dell’esperienza dell’atomica e lo farà con le prose di Natsu no hana (Fiori dell’estate, tradotto in italiano con il titolo L’ultima estate di Hiroshima, 1949) prima di uccidersi, nel 1951, non riuscendo a sopportare il ricordo dell’olocausto atomico. Dopo il 6 agosto 1945, Hara scrisse poesie in metro libero e prose ma solo 23 haiku. Eccone uno:
Campi d’estate:
frammenti di un incubo
lampeggiano davanti ai miei occhi.