Mukashi mukashi. Leggere, per non sentirsi soli. La capanna di Bashō.

Chashitsu (padiglione del tè) del clan Matsuura. Isola di Hirado, estate 2009.

I crisantemi prosperano sul lato orientale del recinto, i bambù sono i signori della finestra a settentrione. Le peonie, di cui si discute se preferire le rosse o le bianche, sono offuscate dalla polvere del mondo. I fiori di loto non spuntano sulla terra e si schiudono soltanto se l’acqua è limpida.

Quando – non ricordo l’anno – mi trasferii in questo luogo, piantai un banano. Forse l’ambiente era propizio alla sua natura, poiché ben presto spuntarono nuovi fusti e le sue foglie si estesero lussureggianti rendendo ancor più angusto il giardino, tanto da coprire persino il tetto di paglia. Così la gente lo chiamò il Romitaggio del Banano. Amici e discepoli l’amavano, e ogni anno io grattavo la terra per cercare germogli e radici da dividere con loro e da inviare in vari luoghi. Un anno decisi di compiere un lungo viaggio verso le province del Michinoku, così disfeci il romitaggio e trapiantai il banano accanto alla siepe, raccomandando vivamente ai vicini di proteggerlo dalla brina coprendolo e di costruirgli intorno un riparo per il vento, e dopo aver affidato tali ansie all’effimera consolazione di uno scritto, partii. Ma nelle notti trascorse viaggiando in paesi remoti il pensiero del pino solitario* sempre m’angustiava e così, dopo aver passato cinque primavere e cinque autunni tormentato dalla nostalgia di quelli da cui ero separato, tornai a versare lacrime sul mio banano.

Anche quest’anno, a metà del quinto mese, si approssima il periodo in cui profumano i fiori degli aranci selvatici, tutti mi testimoniano un’immutata amicizia, per cui mi è difficile abbandonare questo luogo. Mi trasferisco vicino al vecchio romitaggio, in una capanna di giunchi di tre vani che mi si addice, con tronchi di cipresso ben levigati, una comoda porta di bambù e una fitta recinzione di canne: un padiglione sull’acqua a sud, in riva a uno stagno. È orientato verso il monte Fuji e la porta di sterpi è posta obliquamente, così da poter ammirare il panorama. Come la corrente del Sekkō, le acque (del fiume Sumida) stagnano in tre punti, propizi per ammirare la luna, così dalla sera del novilunio incomincio a preoccuparmi per le nuvole e per la pioggia. Per aggiungere incanto alla luminosa luna mi affretto a trapiantare nuovamente il banano. Le sue foglie sono così grandi che potrebbero celare un’arpa. Quando il vento le piega sono in pena come se fossero la coda di una fenice, e mi dolgo se le spezza, simili come sono a versi ventagli. Di tanto in tanto fiorisce, ma con modestia, il tronco è forte ma non attira le accette. È paragonabile alla “specie di alberi inutili delle montagne”, e dunque è prezioso. Il monaco Kaiso faceva scorrere il pennello su queste foglie e Chōōkyo fu stimolato a dedicarsi agli studi vedendo spuntare nuovi germogli. Io non imito né l’uno né l’altro, mi basta godere della sua ombra e amare la sua fragilità al vento e al pioggia.

Bashō

(1644-1694)

“Parole sul trasferimento del banano” in Elogio della quiete, SE, Milano,  2001.

Traduzione di Lydia Origlia.

*Allusione a un waka composto da Saigyō (1118-1190) prima di congedarsi da un pino che cresceva accanto alla sua capanna:

Se nuovamente da qui

stanco di rimanere,

vagabondo m’allontanerò,

triste sarà

il pino solitario.

Traduzione di Lydia Origlia.

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Queste parole di Bashō sembrano un invito a valorizzare l’essenziale. Un invito a godere delle piccole cose belle che ci circondano. Una riflessione, la sua, più che mai valida in giorni come questi.