E quella sera dispiegai sul tavolo, alla luce incerta della mia lampada, una grande cartina di Tōkyō.
Da quanto tempo non compivo quel gesto: dispiegare davanti a me una carta della capitale? Dieci anni prima, quand’ero venuto a installarmi a Tōkyō, non avevo trovato subito il coraggio di andare a comprare una carta come quella: l’idea di passare per un provinciale e sentirmi preso in giro mi aveva fatto rinunciare più di una volta.
Eppure, un bel giorno, avevo finito per decidermi: ero andato a chiedere una carta in un negozio, con un tono a metà fra il brusco e l’autoironico. Poi l’avevo cacciata in una tasca ed ero tornato alla pensione in cui alloggiavo. La sera mi ero chiuso nella mia camera e, di nascosto, avevo dispiegato la cartina. Con tocchi di rosso, di verde, di giallo: che bel dipinto che ne usciva!
Trattenendo il respiro, la scrutavo con passione. Il Sumida, Asakusa, Ushigome, Akasaka: non mancava nulla. In ogni momento, se ne avevo voglia, potevo trasportarmi in uno qualsiasi di quei luoghi. Era magico!
Ancora oggi, guardando l’immagine di Tōkyō, simile a una foglia di gelso consumata da un baco da seta, me ne stavo lì a pensare a ognuno degli esseri umani che potevano abitare in quella città, a ciascuna delle loro vite. In questa pianura senza attrattive affluisce tutto il Giappone: ci si muove, si suda, ci si batte per un pugno di terra, fra gioia e tristezza; ci si ingelosisce, ci si scontra. Le femmine chiamano i maschi, e i maschi se ne vanno all’avventura, fuori di se stessi.
Dazai Osamu
(1909-1948)
Da “Otto immagini di Tōkyō” (1940) in Cento vedute del Monte Fuji.
Fonte: Le goût de Tokyo, textes choisis et présentés par Michaël Ferrier, Paris, Mercure de France, 2008, pp. 13-14.