Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Una lanterna nella notte.

Kaburagi Kiyokata (1878-1972), Cameriera di un negozio chiamato Hanao, 1910 circa.

 

(25 maggio)

  • Alla fine di una lettera di Koshū,* c’era scritto:

Mi dispiace molto per essere rimasto così a lungo silenzioso ma, a essere sincero, immagina che dolore immenso sia per me ricordare il tempo del nostro viaggio a Shinagawa, quando portavamo la piccola lanterna, e di vederti ora sdraiato sul tuo letto di malato.

Questo episodio della piccola lanterna è sempre presente in me, del tutto impossibile da dimenticare, ma quando sento che anche Koshū, pur con la sua grande esperienza in questo campo, se ne ricorda ancora, è perché non manca di un certo fascino singolare. E vedere un malato, ora privo di qualsiasi attrattiva e di qualsiasi potere di seduzione, confessare le proprie turpitudini dal suo giaciglio raccontando le sue buone fortune del passato, è qualcosa di stuzzicante.

L’episodio è accaduto in primavera, alla fine del mese di marzo dell’anno 27 dell’era Meiji (1894), mi pare. Di certo non potevo immaginare neppure per un secondo che, quattro mesi più tardi, delle gigantesche scintille di fuoco sarebbero scoppiate sulla Corea.** Trascinato da Koshū, questo debosciato che trascorreva il suo tempo a lamentarsi, a seconda dei suoi capricci, persuaso nell’intimo che la pace regnasse ancora in questo mondo, pensavo di trascorrere una domenica al parco di Ōmiya, ma poiché i ciliegi non erano ancora fioriti, eravamo tornati indietro e ci eravamo fermati a Meguro, in uno stabilimento che si chiamava, credo, la Locanda delle Peonie e mentre aspettavamo, le gambe piegate, l’aria abbattuta, una giovane di 16 o 17 anni venne a servirci il riso con i germogli di bambù che avevamo ordinato. Sul suo viso soffuso di una grazia tutta femminile fluttuava anche qualcosa di ingenuo, e la sua gentilezza, che non sembrava per nulla scalfita dalla sua frequentazione di uno stabilimento come quello, esercitava sulle persone un fascino estremo, tale che, senza dire niente a Koshū, lasciai che il mio cuore battesse all’impazzata. Anche lui, per parte sua, sicuramente non ne era insensibile e, quando la fanciulla ci portò una lampada, le disse: “Non ci accogliereste per una notte nel vostro albergo?” Ma questa rispose freddamente: “È del tutto impossibile”, e Koshū, che aveva dei dubbi sulla cosa, non tentò neppure di intavolare dei negoziati. Restò silenzioso. Poi ci immergemmo in una conversazione a ruota libera e, quando in modo inatteso suggerì di rientrare a piedi: “Si riparte verso Shinagawa? Non è troppo lontano: andiamo a piedi?”, accettai subito questa proposta seducente e partimmo insieme tranquillamente. Poiché fuori annottava, la fanciulla accese una lanterna pieghevole e ci accompagnò all’esterno. “Come si va da qui a Shinagawa?” Le avevamo chiesto, e lei ci rispose: “A Shinagawa? Se voltate a sinistra laggiù e poi ancora a destra… Vi metto io sulla strada”, e si mise davanti a noi con passo rapido, portando la piccola lanterna. Noi la seguimmo per un centinaio di metri e arrivammo in un angolo appartato, in mezzo alle macchie, in una luogo isolato. “Se tagliate attraverso le risaie, non potete sbagliarvi, non c’è che una strada”, disse, dandomi la piccola lanterna: io la presi e mi apprestai a lasciarla: “Grazie davvero”, quando lei riprese: “Un momento!” E ritornò indietro per una decina di metri. Poiché restavamo fermi, esitanti, non comprendendo bene le sue intenzioni, la ragazza tornò verso di noi e, guardando all’interno della lanterna, vi introdusse una pietruzza.*** Poi: “Arrivederci, buona fortuna!”, e su queste parole, scomparve nell’oscurità, là da dove era venuta. Il fascino di quell’istante, quel piccolo sentiero sul limitare dei campi, come in mezzo alle macchie, e io, con la mia piccola lanterna nel cuore dell’oscurità, e quella bella fanciulla, il suo piccolo ciottolo: ancora oggi, quando mi tormento sul mio letto di malato, non posso dimenticare il fascino di quell’istante.

Poi Koshū e io, contro un vento di primavera ancora gelido, nel bel mezzo della notte, prendemmo il cammino attraverso le risaie fino a Shinagawa. La città era appena stata distrutta a metà da un incendio e, in particolare, le case di piacere, che continuavano la loro attività dentro a baracche provvisorie, offrivano uno spettacolo insolito. Poiché il nome stesso di “baracca provvisoria” lo attirava, Koshū osservava con attenzione attraverso le finestre di bambù le ragazze del mondo fluttuante che si affollavano l’una contro l’altra, ginocchio contro ginocchio, all’interno di una piccola baracca circondata da stuoie di paglia e, proprio mentre mi tenevo dietro a lui, un po’ distratto, salì dalla mia mano una fiamma che mi sorprese. Abbassai la testa e scoprii che la bugia della lanterna, che avevo tenuto in mano fino ad allora, si era consumata e che il fuoco aveva cominciato a raggiungere l’intelaiatura stessa, a tal punto che dei brandelli di quella piccola lanterna si misero a cadere in scintille.

Utatane ni

haru no yo asashi

botantei.

Piccola siesta

breve è la notte di primavera

alla Locanda delle Peonie. 

Masaoka Shiki

(1867-1902)

 

Da: Un lit de malade six pieds de long (Byōshō rokushaku, 1902) traduit, annoté et présenté par Emmanuel Lozerand,

Paris, Les Belles Lettres, 2016, pp. 42-44.

*Kojima Kazuo (1865-1952), detto Koshū, giornalista e uomo politico, amico di Shiki.

**Nel giugno 1894 il Giappone invia delle truppe in Corea:

sono le prime avvisaglie della guerra sino-giapponese che scoppierà nel mese successivo.

***Per  rendere stabile la lanterna.

 

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“Non mi stanco di leggere e rileggere il piccolo brano della lampada in Un letto di malato lungo sei shaku“, scriveva Akutagawa Ryūnosuke nel suo Note sparse di un malato (Byōchū zakki, 1927), qualche mese prima di darsi la morte. E, in effetti, il piccolo episodio raccontato dal poeta Masaoka Shiki nel suo ultimo diario, Un letto di malato lungo sei shaku (uno shaku corrisponde a circa 30 cm), è per lui uno degli ultimi momenti sereni, prima che la malattia si manifestasse, nel maggio 1895.

Tenuto dal 5 maggio al 17 settembre 1902, sino al giorno prima di morire per quella tubercolosi ossea che l’aveva tenuto incatenato al suo futon già a partire dall’anno precedente, il diario nasce come una serie di corrispondenze giornaliere per il quotidiano Nihon, e si presenta ricco di annotazioni vivaci, punteggiato di haiku, di osservazioni “seguendo il pennello”, il frutto di una mente acuta e sensibile, mai stanca. Tradotto unicamente in francese, meriterebbe davvero di essere conosciuto e apprezzato anche dai lettori italiani …