Nagasaki. Sono passati 70 anni e non ha rinunciato al suo ruolo. Ce lo dicevano in molti, quel 9 agosto 1999, durante e dopo la celebrazione: Nagasaki deve restare l’ultima. L’ultima città a subire il bombardamento atomico. L’ultima città ad essere spazzata via, cancellata, annientata dalla più spietata delle armi.
Mantiene la promessa, Nagasaki. Quella di essere testimone, ma un testimone che non accetta passivamente il suo ruolo, che denuncia, che alza la voce, che intima il rispetto. Per sé, per i sopravvissuti, per ogni essere umano.
Abbiamo pregato, sì, qualunque cosa questo abbia voluto dire, sulle rovine della cattedrale di Urakami.
Poi, nel Parco della Pace, sotto gli enormi tendoni in cui, ci siamo accorti, eravamo gli unici ad avere tratti europei, abbiamo osservato volti, ascoltato i canti dei bambini, assistito ai riti dei monaci. Abbiamo sentito il profumo dell’incenso, udito le campanelle. Abbiamo scambiato sorrisi con chi distribuiva asciugamani freschi per detergere il sudore e lattine di tè per placare la sete. Ci siamo tenuti a rispettosa distanza, ma le persone si sono avvicinate. Per raccontare, per chiederci di parlare di Nagasaki ai nostri amici. Perché nulla andasse dimenticato.
Guardavamo. Non so se capissimo tutto. Non credo.
Le visite al Museo della Bomba, le letture… ma basta davvero documentarsi per capire?
No, proprio non credo.
Non sarebbero bastati miliardi di parole.
Ma il silenzio rimasto alla fine di tutti i discorsi, sotto quella canicola di agosto, quello sì, ci ha spiegato.