Erano i primi giorni di marzo, tre anni dall’inizio della sua convivenza con Rumi, e ormai si avvicinava l’esame di laurea.
Rumi gli aveva proposto di fare due passi insieme perché c’era qualcosa di cui voleva parlare con lui, e così erano andati a passeggio nei dintorni del Ryōanji. Entrambi avevano la sensazione che il loro rapporto fosse giunto a un punto critico, e camminavano in silenzio con aria cupa. Anche quel giorno percorsero il corridoio del tempio principale in cui si trovava il giardino di rocce, come se dovessero semplicemente passare del tempo. Poi per circa mezz’ora sedettero sulla veranda a contemplare le rocce disposte su quella bella sabbia bianca, senza scambiarsi una sola parola.
Quindi, usciti di lì, girarono senza meta dentro il recinto del tempio, dove ancora i ciliegi non erano in fiore, mantenendo fra loro un distanza di quasi un metro. Ormai i sentimenti di Uomi per Rumi si erano raffreddati in modo irrimediabile. Non ne sopportava più la mancanza di istruzione, e detestava vari aspetti del suo carattere. Anche i suoi grandi occhi gli sembravano privi di finezza, e quel modo di parlare lezioso cominciava a dargli sui nervi. Non riusciva a farsi una ragione di come avesse potuto, in passato, essersi tanto invaghito di quella donna.
Rumi era consapevole di tali sentimenti in Uomi. Ma nel corso di quei tre anni si era formato in lei, nel corpo e nell’anima, un legame che le impediva di separarsi da lui.
All’inizio della loro vita insieme, Rumi aveva spesso implorato Uomi di sposarla, ma ormai aveva rinunciato. Più del problema formale del matrimonio, un altro, ben più urgente, era per Rumi causa di angoscia costante: la preoccupazione di evitare a tutti i costi che Umi potesse abbandonarla.
Ma quel giorno Rumi era un po’ diversa dal solito. Aveva pensato che se l’amore di Uomi per lei era definitivamente morto, e non esisteva la possibilità che rinascesse, in quel caso si sarebbe allontanata da lui. Lei stessa non sapeva se sarebbe stata capace di continuare a vivere senza Uomi, ma si proponeva di tentare con tutte le sue forze.
La laurea di Uomi ormai si avvicinava, e se la rottura era inevitabile, lei sentiva che quel momento doloroso, anziché rimandato, andava affrontato al più presto. “Vorrei che mi parlassi con sincerità. Non voglio che tu ti faccia scrupoli nei mie confronti, e non ho bisogno della tua pietà. Vorrei soltanto che mi dicessi quali sono i tuoi veri sentimenti” furono le sue parole. “Allora, parla. Mi ami o non mi ami?”.
“…”.
Ci risiamo, pensò Uomi, restando in silenzio. Quante volte, in questi tre anni, mi avrà ripetuto la stessa domanda? Decine di volte. Eppure lui non era mai riuscito a dirle chiaramente: “Non ti amo”. Per poter pronunciare quelle parole, avrebbe dovuto diventare cattivo. Naturalmente era una debolezza da parte sua, ma il peso di quei tre anni di vita in comune lo legava con una forza a cui era impossibile opporsi.
“Mi ami? Non mi ami? Basta, non telo chiederò più. Ti farò una domanda molto meno nobile, e più chiara. Mi odi? Non mi odi? Se mi odi, dimmelo. Allora, mi odi? Ce la fai a dirlo, no? Basta un cenno con la testa, in orizzontale o in verticale. Allora, mi odi?”
Uomi notò che il viso di Rumi aveva assunto un pallore e una gravità mai visti.
La guardò con un sentimento di rifiuto. Subito dopo, con un tono tagliente che lasciò stupito lui per primo, esclamò: “Ti odio!”.
Dopo averlo detto, provò un immediato sollievo. Le parole gli erano sfuggite di bocca senza che se ne accorgesse.
“Ah, è così”. La voce di Rumi risuonò stranamente calma.
Uomi ebbe la sensazione che qualcosa di una crudeltà atroce, ignota a lui stesso, si avvolgesse in una nera spirale dentro il suo cuore.
Si accorse chiaramente che il sangue era defluito dalle labbra minute di Rumi, lasciandovi un biancore sinistro che ricordava il ventre di un pesce. Pensando che stesse per svenire, con prontezza allungò una mano per sostenerla. Per un attimo tutto il peso di Rumi si concentrò sulla sua mano, ma lei, schiudendo appena gli occhi, disse: “No” ritraendosi un poco dal braccio di Uomi. Poi rimase per qualche istante accovacciata a terra, ma si rialzò e, volgendogli le spalle, prese ad allontanarsi con passo incerto, barcollando, senza girarsi a guardarlo.
È finita, pensò Uomi. C’erano già state molte scene simili, ma questa volta, a differenza delle altre, aveva avvertito un senso di verità che faceva pensare a una conclusione irrevocabile.
In ogni caso, con questo è finita!, pensò di nuovo. Ma nella sorpresa per avere profferito quelle parole terribilmente crudeli, insolite per lui, debole com’era, si mescolava una certa soddisfazione.
Quel giorno, Uomi non se la sentì di tornare nell’appartamento che divideva con Rumi. Dopo essere stato a trovare due o tre amici, solo a tarda notte salì infine le scale di casa.
La luce era spenta. Quando l’ebbe accesa, vide che la parete a cui erano sempre appesi gli abiti e i kimono di Rumi era vuota. Lei non sarebbe tornata più in quella casa.
Pensieri dal sapore amaro restarono a lungo in lui, ma Uomi non cercò di scoprire dove fosse andata Rumi.
Una volta sentì dire da qualcuno che faceva la cameriera a Ōsaka, a Shisaibashi, ma quella sera gli bastò qualche bicchiere per dimenticarsene.
Inoue Yasushi
(1907-1991)
Traduzione di Giorgio Amitrano.
Da: “Giardino di rocce” (Sekitei), in Amore, Milano, Adelphi, 2006, pp. 26-31.
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Uno dei maggiori scrittori giapponesi del XX secolo, Inoue Yasushi mi ha sempre colpito per la sua capacità di cogliere e descrivere con rara acutezza le sfumature più impercettibili dell’animo umano. La sua ricca produzione si suddivide fra una serie di romanzi storici, epici e appassionanti (non tradotti in italiano), e una serie di romanzi brevi e racconti di ambientazione più intimista, in cui emerge tutta la sensibilità che caratterizza anche il brano che ho scelto dalla raccolta Amore, che raccomando di leggere e che, insieme al breve e folgorante Fucile da caccia (Ryōjū, tradotto da Giorgio Amitrano e pubblicato in Italia sempre da Adelphi) rappresenta uno dei gioielli più preziosi della letteratura giapponese dello scorso secolo.