Quando il sushi era esotico… una pagina di Tanizaki.

Ragazze "moderne" in un'illustrazione di Kasho Takabatake (1888-1966).

 

Rileggendo in questi giorni lo splendido Neve sottile, capolavoro di Tanizaki da gustare periodicamente come un cognac invecchiato, mi sono imbattuta in una pagina che non ricordavo e che trovo deliziosa per il suo côté rétro che non può mancare di farci sorridere. La scena di svolge in un piccolo ristorante di sushi di Kōbe, prediletto dalle sorelle Makioka per quel gusto tipico del Kansai che lo contraddistingue.

A noi lettori in italiano questo brano fa sorridere per lo stile della traduzione, vecchiotto e superato (vi si trova il plurale di “geisha”, un vero orrore; mancano in compenso gli allugamenti delle vocali dove andrebbero, come sui nomi  Kōbe e Ōsaka, mentre per il nome Tōkyō la grafia è ancora italianizzata) e per l’ingenuità di una nota esplicativa per il termine sushi ormai francamente superflua ma del tutto giustificata nel 1973, anno di uscita della traduzione italiana e, ça va sans dire, della copia in mio possesso.

Per farvi gustare questo stile rétro mi prendo la responsabilità di lasciare inalterato il testo e di proporvelo qui. Buona lettura!

 

Davanti al banco v’era posto giusto per una decina di clienti e il locale era già affollato. Con i Makioka, un tipo che all’aspet­to sembrava un agente di cambio, due o tre suoi dipendenti e due donne giovani, senza dubbio geishe, accompagnate da una collega più anziana, rimaneva appena appena spazio bastante per una persona disposta a scivolare dietro i sedili. La porta si apri­va di continuo per lasciare entrare sempre nuovi clienti che do­mandavano, talvolta con accento implorante, se fosse possibile mangiare qualcosa. Ma, come sovente accade nelle trattorie dove si mangia il sushi,[i]il proprietario dello Yohei trattava i nuovi arrivati con scortesia e durezza. Se proprio non si trattava di un affezionato cliente che avesse riservato il posto, rispondeva alla richiesta con un sogghigno sdegnoso quasi per invitarlo a valu­tare personalmente le sue probabilità di successo; del resto an­che il consueto avventore, giunto in ritardo sull’orario stabilito, ve­niva invitato a ripresentarsi dopo un’ora o più. Il vecchio aveva appreso il mestiere a Tokio, nella famosa trattoria Yobei, or­mai chiusa da molto tempo, e, al momento di inaugurare questo nuovo locale, aveva voluto imporgli un nome che, sebbene mo­dificato, ricordasse quello del ristorante ove aveva trascorso tan­ti anni. Tuttavia, essendo nato a Kobe, preparava il sushi secon­do il gusto del posto: le polpette di riso e il pesce da lui cucinati sarebbero piaciuti anche alla clientela di Tokio, ma erano adatti in particolar modo al palato degli abitanti di Kobe. Nel con­dimento non entrava mai l’aceto bianco di Tokio, in compenso ne era parte essenziale una spessa salsa di soia sconosciuta nella capitale. I pesci dovevano essere stati pescati, per così dire, sotto i suoi occhi, lungo le coste del Mare Interno. Su un unico punto egli rispettava gli insegnamenti ricevuti in gioventù al vecchio Yobei; sosteneva, cioè, che qualsiasi qualità di pesce fosse adatta alla confezione del sushi. Aveva provato a usare capitoni, lasche, ostriche, ricci, pettini e persino le rosse carni della balena; né si era limitato a pesci o molluschi, in quanto aveva voluto ricorrere anche ai funghi, ai germogli di bambù e ai cachi. Ciò no­nostante non avrebbe mai acconsentito a servire ai clienti il più volgare fra gli ingredienti del sushi, il tonno; così come non per­metteva che nella sua trattoria si cucinassero scaloppine, frittate o altri piatti comuni. A volte faceva cuocere il pesce, ma crosta­cei e ostriche dovevano essere ben vivi quando venivano posti di­nanzi all’avventore.

Kurazushi, piccolo ristorante di sushi sul Mare Interno. Estate 2009.

Taeko era stata la prima a far la conoscenza di quello strano vecchio; quasi si sarebbe potuto dire che lo avesse scoperto. Poi­ché mangiava spesso fuori di casa, era bene informata a proposito delle trattorie del centro di Kobe e aveva cominciato a mangia­re allo Yohei quando era sito in un locale ancora più ristretto del presente, in fondo a una stradina, nei pressi della Borsa. Prima di condurvi il resto della famiglia, si era divertita a descrivere il bizzarro gnomo macrocefalo che pareva uscito da un libro di leg­gende spaventevoli, respingeva con aria altera i clienti e attacca­va i pesci con il coltellaccio impugnato ferocemente, quasi per ven­dicare un insulto. Teinosuke, quando si era recato allo Yohei con il preciso scopo di vedere il proprietario, lo aveva trovato ridicol­mente somigliante alla descrizione che gliene aveva fatto Taeko. Con gli avventori allineati di fronte a sé, il vecchio domandava a fior di labbro che cosa desiderassero mangiare, poi, incurante della risposta, metteva loro dinanzi ciò che egli voleva. Distribui­va a tutti, per esempio, una porzione di reìna e, subito dopo, riempiva i piatti di crostacei, dimostrandosi molto contrariato se qualcuno non aveva finito la prima portata quando a lui faceva comodo di scaraventargli nel piatto la seconda. «Ce n’è ancora un poco», diceva in tono aggressivo, fissando i due o tre bocconi non consumati per noncuranza o svogliatezza. Ogni giorno varia­va qualità di pesce; ma teneva sempre pronte reìne e ostriche, per servirle all’inizio del pasto. I non iniziati che gli chiedevano il tonno erano particolarmente male accolti: sovente, non po­tendo resistere alla tentazione di sfogare in qualche maniera la sua violenta antipatia, il vecchio metteva una sovrabbondante dose di pepe nel sushi destinato alla vittima e poi, con un beato sorriso, se ne stava a guardarla ansimare e tossire.

Sachiko, che aveva una spiccata predilezione per la reìna, era divenuta in breve tempo una delle più fedeli clienti del locale, imitata con entusiasmo da Yukiko. A questo proposito, anzi, in­correndo in una lieve esagerazione, si potrebbe affermare che il ricordo della trattoria Yohei fosse una delle cause della nostal­gia da cui la fanciulla era incessantemente tormentata quando doveva trattenersi a Tokio. Con il cuore greve di rimpianto, ri­pensava alla casa di Ashiya, ma in un angoletto recondito della sua mente faceva capolino anche la visione del ristorante e del vecchio, intento a ridurre in pezzi le scintillanti reìne. Sebbene in linea generale preferisse la cucina europea, dopo aver man­giato per qualche settimana il tonno di Tokio, Yukiko poteva risentirsi nuovamente in bocca il sapore di quel pesce dalla bian­ca carne, lucente come madreperla, che le sembrava quasi un em­blema della luminosa regione di Kobe-Osaka, e insieme della nipotina, della sorella, della casa da cui era costretta a restar lontana.  

 

Tanizaki Jun’ichirō

(1943)

 

Da Neve sottile (Sasame yuki), trad. di Olga Ceretti Borsini, Milano, Longanesi, 1973, pp. 298-300.


[i]  Polpette di riso condite con aceto e droghe, sulle quali si dispongono pezzi di pesce cotto o crudo.

Nella vetrina di un ristorante di sushi. Kyōto, 2009.

 

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