Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Quell’unica rosa.

 

Kawarazaki Shodo, Rose, stampa del 1950.

 

Quei rosai nell’ombra di cui si era occupato, un giorno – meno di una settimana dopo che li aveva liberati a colpi di cesoie dei rami e del fogliame che li ricoprivano, e gli aveva permesso di ritrovarsi sotto i raggi del sole – si misero a mostrare qui e là, sui loro rami ormai accessibili alla luce, delle gemme leggermente tinte di rosso. E poi, già due o tre giorni dopo, la sorprendente potenza del sole aveva trasformato quelle gemme in tenere foglie. Ma nonostante si recasse ogni mattina fino al bordo del pozzo per lavarsi il viso, senza che se ne fosse reso conto, senza che ne avesse preso veramente coscienza, i rosai erano del tutto usciti dai suoi pensieri.

In maniera inattesa un mattino (era appena una ventina di giorni che se ne era occupato), si accorse per caso che, su un nuovo ramo di uno di quei rosai, dallo stelo di un verde eclatante, era fiorita una rosa. Rossa, posta in alto, un’unica rosa.

«Dopo quest’anno così lungo, simile a un soggiorno in prigione, il mese di maggio, dunque, sta ora tornando!». Quel fiore tardivo, che era sbocciato su un rosaio che si stava seccando, sembrò voler dire queste parole con un profondo sospiro di gioia mentre faceva scorrere il suo sguardo attorno a sé da ogni lato. La luce del sole, con il suo splendore caratteristico in questo periodo vicino all’autunno, si concentrava su quel rosaio.

Ah, le rose! I suoi fiori preferiti! «Se è una rosa, fiorirà!». D’improvviso, il ricordo delle sensazioni che aveva provato, il giorno che si era occupato dei rosai, risalì alla sua coscienza, intenso. Delle spine flessibili si ergevano, di un color rosa vivo, come le unghie di un neonato e quando prese delicatamente il ramo, punsero leggermente le sue dita. Provò la stessa sensazione di puntura che quando il suo gatto, con gesto affettuoso, gli mordicchiava delicatamente la mano. Curvò il ramo e lo avvicinò a sé. L’unica rosa, ah!, era proprio delle dimensioni di un anemone. E i petali del fiore doppio erano ancora più piccoli di quelli dei fiori di ciliegio. Più che un fiore di giardino, sembrava un fiore al bordo di una strada. Eppure, quella rosa così piccola, così misera, così difforme, era più rossa delle labbra di un adolescente, possedeva, sì, quel fascino e quella distinzione toccanti propri delle rose e, quando avvicinò il suo naso, scoprì che, in più, profumava; fu scosso allora da un’emozione indescrivibile. Un sentimento che sapeva di tristezza, che sapeva anche di gioia, in cui le due cose si mescolavano senza che fosse possibile distinguerle, montò in lui, dolorosamente. Questo sentimento assomigliava a quello che aveva provato quando i suoi cani, con tutta la fiducia cieca che accordavano al loro padrone, l’avevano fissato con i loro occhi puri, ma era ben più violento. Era il genere di sentimento che avrebbe provato se, dopo che avesse dispiegato dei tesori di gentilezze per una fanciulla a causa di un’infatuazione momentanea e che l’avesse in seguito completamente dimenticata, questa giovane, più tardi, incontrata per caso, gli avesse confidato: «Da quel giorno, non ho mai smesso di pensare a voi».

Un’emozione profonda, incomprensibile, si impossessò di lui fino a farlo rabbrividire, e quando sbattè involontariamente le palpebre, il contorno delle piccole rose rosse davanti a lui tremò, e si accorse, senza averne coscienza, che dai suoi occhi si erano messe a sgorgare delle lacrime.

Una volta che le lacrime ebbero smesso di scorrere, la sua emozione non tardò a spegnersi. Ma restò lì, in piedi, interdetto, il ramo con il fiore ancora fra le mani. Le lacrime sulle sue guance si erano seccate, lasciandole tese. Rovesciò lo sguardo direttamente verso il proprio interno e ascoltò la conversazione fra alcuni dei suoi doppi, dentro di sé, come se quello che dicevano non lo riguardasse:

«È da idioti: sono qui come un poeta a contemplare le mie dolci lacrime. Sono commosso da questo fiore o dal mio stesso fantasticare?»

«He, he! Signor giovane eremita, perso in fondo a questa campagna ti è venuta sete d’umanità?»

«Ah, ma bene! Sono proprio il peggiore degli ipocondriaci!»

 

Satō Haruo

(1892-1964)

 

Da: Mornes saisons (Den’en no yūutsu, 1919), Paris, Les Belles Lettres, 2014, pp. 56-58.

Récits présentés et traduits du japonais par Vincent Portier.

 

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Scrittore e poeta raffinatissimo, Satō Haruo è stato un intellettuale di spicco nel Giappone della prima metà del XX secolo ma la sua produzione è ancora pressoché ignorata, almeno in Italia. Ho voluto proporre un esempio della sua prosa, intrisa di lirismo, che mantiene inalterato il suo potere di suggestione anche per noi lettori del XXI secolo.

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