Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Osamu Dazai, ad esempio.

Kawaguchiko, aprile 2017.

L’angolazione della vetta del Fuji è di 85° nei dipinti di Hiroshige e di circa 84° anche in quelli di Bunchō; ma se si facesse una sezione da Est a Ovest o da Nord a Sud, in accordo alle mappe militari, l‘apertura della vetta risulterebbe di circa 124° nella sezione Est-Ovest e di 117° in quella Nord-Sud. In generale, e non solo nei dipinti di Hiroshige e Bunchō, il Fuji è rappresentato con una cima ad angolo acuto. La vetta appare slanciata, alta e snella. Se poi consideriamo Hokusai, egli dipinge il Fuji come se fosse  la torre Eiffel, con un’angolazione della vetta di quasi 30°. Ma in effetti il Fuji reale, con la cima ad angolo ottuso, tronca e allargata, di 124° nella direzione Est-Ovest e di 117° in quella Nord-Sud, non è affatto una montagna d’eccezionale bellezza, alta e slanciata. Se per ipotesi un’aquila mi rapisse in India, per esempio, e mi deponesse sulla costa giapponese vicino a Numazu, la vista di questa montagna non mi lascerebbe così affascinato.

Proprio perché da tempo è oggetto di ammirazione, questo “Fujiyama giapponese” è assai rinomato, ma immeritatamente.

Una tale fama, del tutto involontaria, si può appellare agli spiriti semplici, ingenui  e un po’ superficiali; ma nella realtà la montagna risulta un po’ deludente.

È bassa, bassa in rapporto all’ampiezza della base. Una montagna con una tale base dovrebbe essere almeno una volta e mezzo più ampia.

Solo il Fuji che vidi da Jikkokutoge appariva alto. Era proprio bello. All’inizio la cima non si vedeva per via delle nubi, e giudicai dalla pendenza al piede del monte che la vetta si doveva trovare a una certa altezza. Segnai quel punto su di una nuvola, ma quando la nuvola si squarciò mi accorsi che non era così.

E mi apparve improvvisamente la cima azzurra, alta più del doppio rispetto al mio precedente riferimento.

Più che esserne sorpreso mi sentii stranamente eccitato, e scoppiai a ridere. Ma che diavolo stai facendo, pensai. Capita che quando l’uomo si confronta col piacere della perfezione, sembra perdere il controllo e finisce col ridere sguaiatamente. Esiste l’espressione “allentare scioccamente la vite del corpo”, ma mi parve d’aver riso con l’obi slacciato. Signori, c’è da rallegrarsi se non appena vi incontrate con la persona amata questa scoppia in una risata. Certo non ne dovete biasimare la scortesia: infatti, quando ella vi incontra, si trova totalmente immersa nel piacere della vostra perfezione.

Il Fuji che si vede dal mio appartamento di Tōkyō è penoso. D’inverno lo si distingue chiaramente. Un bianchissimo triangolino che spunta appena all’orizzonte, questo è il Fuji. Nient’altro che una decorazione natalizia. Però se ci si inclina sulla sinistra, ricorda il profilo di una nave da guerra che inizia lentamente ma inesorabilmente ad affondare da poppa.

L’inverno di tre anni fa rimasi sconvolto da una confidenza del tutto inaspettata che mi fece una persona. Quella sera mi chiusi da solo in una stanza dell’appartamento a ubriacarmi di sake. Bevvi sake senza chiudere occhio. All’alba mi alzai per una piccola necessità, e mi apparve il Fuji attraverso la griglia fissata alla finestra quadrata del bagno. Non ho mai dimenticato quel Fuji piccolo, bianchissimo, un po’ inclinato a sinistra. La macchina di un pescivendolo sfrecciò sotto la finestra sulla strada asfaltata. “Stamattina il Fuji si vede con estrema chiarezza, e fa un freddo tremendo” mormoravo in piedi nel bagno buio, mentre accarezzavo la griglia della finestra e piangevo calde lacrime. Non voglio mai più rivivere quei pensieri. All’inizio dell’autunno del ’38, determinato a dare una svolta alla mia vita, mi misi in viaggio portando con me solo una borsa.

[…] Dalla città di Kōfu, sballottato per un’ora sull’autobus, arrivo finalmente al passo Misaka (1300 m sul livello del mare). Sulla sommità di questo passo si trova una piccola locanda, detta Tengachaya. Qui, al primo piano, Ibuse Masuji* lavora in isolamento da inizio estate. Sapendolo ci andai. Per non disturbare il lavoro di Ibuse presi in affitto la stanza a fianco, sperando di godermi anch’io la solitudine per un po’ di tempo.

Ibuse era al lavoro. Col suo permesso mi sistemai nella locanda in cui, poi, che mi piacesse o no, mi ritrovai ogni giorno faccia a faccia col Fuji. Quel passo, collocato sulla via di Kamakura che da Kōfu esce sulla Tōkaidō, è considerato il miglior belvedere del lato Nord del Fuji. Fin dall’antichità quello che si vede da qui è uno dei tre famosi panorami del Fuji, ma a me non è che piacesse poi molto. Anzi, addirittura me ne facevo beffe. 

È un Fuji “su misura”. Nel mezzo si erge il Fuji, sotto si stende il lago Kawaguchi, freddo e desolato, abbracciato su entrambi i lati da montagne accoccolate tranquille ai suoi piedi. Appena lo vidi provai imbarazzo e arrossii. Sembrava quasi una crosta da bagno pubblico, lo scenario di una commedia. Era proprio un paesaggio fatto su ordinazione, e non potei non avvertirne l’imbarazzo.

Erano trascorsi due o tre giorni da quando ero arrivato alla locanda in questo passo. Poi, dopo che anche il lavoro del signor Ibuse giunse alla fine, in un limpido pomeriggio salimmo al passo Mitsutoge (1700 m sul livello del mare). È un po’ più alto del passo Misaka. Arrampicandoci quasi carponi per l’erta salita, in un’ora circa raggiungemmo la cima del Mitsutoge. Le nostre figure che si inerpicavano per un sentierino di montagna facendosi largo tra le piante rampicanti non erano affatto un bello spettacolo. Ibuse indossava un appropriato equipaggiamento da scalata all’occidentale, comodo e leggero. Io, che non disponevo di un equipaggiamento da scalata, indossavo un kimono imbottito. Il kimono imbottito preso alla locanda era corto, e mi lasciava scoperte le gambe pelose per almeno trenta centimetri. Per di più indossavo dei semplici tabi con suole di gomma prestatemi dall’anziano gestore della locanda; per cui mi sentivo in difficoltà ed escogitai il sistema di allacciarmi una cintura e di calzare una berretta di vecchie fascine d’orzo che si trovava appesa al muro della locanda. Ricordo però che Ibuse, uno che non si cura dell’aspetto della gente, assai stranamente, e in verità solo in questa occasione, mi disse con un’espressione un po’ mogia e a voce bassa, per consolarmi, che comunque è meglio non preoccuparsi di cose esteriori come il modo di vestire.

Nonostante tutto giungemmo in cima, ma improvvisamente si levò una fittissima nebbia.

[…]

Sulla piattaforma panoramica si trovavano tre locande. Scegliemmo una di queste, la più modesta tenuta da due anziani coniugi, e bevemmo un tè caldo. La signora si mostrò dispiaciuta e disse che quella nebbia era veramente una sfortuna, ma pensava che, se avessimo aspettato un po’, la nebbia si sarebbe alzata e che il Fuji lo si sarebbe potuto vedere distintamente proprio lì. Poi tirò fuori dal fondo della locanda una grande fotografia del Fuji, e stando in piedi sull’orlo del dirupo, tenendo alta la foto con entrambe le mani, ci spiegò con precisione e con impegno, che il Fuji si trovava lì, fatto in quel modo, così grande, così chiaro, proprio così come si vedeva. Noi, mentre sorseggiavamo il tè, ridemmo osservando questo Fuji. Potemmo vedere un bel Fuji davvero. E non pensammo più alla sfortuna di quella fitta nebbia.

 Dazai Osamu (1909-1948)

Traduzione di Fabiana Colombo e Paolo Castiglioni.

Da Le cento vedute del Fuji (Fugaku hyakkei, 1939),

in A Oriente! Rivista italiana di lingue e culture orientali, Anno III, n°8 (2002), pp. 106-110.

*Ibuse Masuji (1898-1993), scrittore e amico di  Dazai.

 

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La prosa brillante e iconoclasta di Osamu Dazai ci veicola una visione diversa dell’icona Fuji, una visione umoristica e irriverente. Ritrovate queste pagine su una vecchia rivista, le ripropongo come lettura per questi giorni di clausura.

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