Le noci glassate
Il viaggiatore fece questo racconto.
Era in una contrada del nord, all’epoca dell’anno in cui rosseggiano gli aceri. Camminava per le vie della sua città natale. Le impronte lasciate dai passanti sulla sabbia sparsa dai lavori di rifacimento della via principale gli facevano naturalmente pensare al percorso che si traccia su uno spesso strato di neve.
C’era una graziosa pasticceria.
Il viaggiatore entrò nel negozio. «Avete dei dolcetti alle noci?» Aveva intenzione di portarsi a casa un souvenir. La persona deliziosa che gli rispose portava lo spesso chignon delle donne sposate, molto liscio, ornato di seta rosa. «Sì, signore.» La sua vita sottile la faceva sembrare tanto più slanciata perché aveva accuratamente sistemato il kimono. Lo haori e il kimono erano in seta di Oshima, a piccoli riquadri scuri. Il cordoncino dello haori, legato molto stretto, dissimulava delicatamente la rotondità dei suoi seni… La scollatura disegnava una linea molto pura. La fessura delle maniche, girata verso l’interno come nelle vesti delle bambole, lasciava appena intravedere il rosso vivace del sotto-kimono. Il colletto nuovo, senza dubbio in mussolina di lana, a motivi di fiori su fondo color malva, si incrociava alto, cosa che le dava quell’aspetto fragile e addirittura malinconico particolare delle donne nate nel paese delle nevi.
Era già occupata con qualcuno. «Un istante, prego, e sono da lei. » Che età poteva avere? Una ventina d’anni. Ventidue, ventitrè anni? Ancora fresca. Probabilmente la giovane proprietaria. Stava facendo un pacchetto.
Poiché era indaffarata a un tavolino, di spalle, si indovinavano, proprio attraverso la seta delle maniche dello haori, i movimenti delicati dei gomiti. Con un tessuto a righe, si sarebbe potuto vedere attraverso…
Si voltò e quando avanzò verso la direzione dei clienti, i lembi del suo kimono si aprivano ad ogni passo in un fruscio di seta. Si chinò un poco davanti alla persona che si era avvicinata: una domestica dal viso tondo, con i capelli ricci dai riflessi rossastri, a cui rivolse un sorriso affabile colmo di una grande gentilezza.
«Ehi, piccola della profumeria… » Quella che veniva chiamata così rispose con una voce gelida, tirandosi le maniche in cui cercava di nascondere le mani, le spalle tutte incurvate. «Sì, signora.» «Vedi, sul contenitore vuoto dello zucchero che è lì c’è un piccolo recipiente di colla di cui si è appena servita una cliente… Saresti così gentile da passarmelo?» «Sì, certo.» «Scusami se ne approfitto, ma visto che ci conosciamo bene» – aggiunse con un sorriso.
Aveva il naso diritto in un viso ovale, lo sguardo puro e, quando sorrideva, si vedevano i suoi denti bianchi, ma anche un po’ di rosa della gengiva superiore, color della pesca matura. Che peccato! Ma era quello un segno della sua appartenenza al mondo degli umani. Altrimenti, sarebbe stata di una bellezza troppo nobile, degna di stare al rango degli dei. «Ma è naturale!» «Sei davvero gentile.»
La colla era sistemata sull’estremità di un cofanetto in legno bianco, proprio dietro al viaggiatore. Il cofanetto era vuoto, in effetti. C’era stata come una pausa fra due temporali e un ombrello in carta cerata, che sgocciolava ancora, vi era appoggiato.
Il viaggiatore, lui, era sempre in piedi, appoggiato sul manico di un ombrello preso a prestito. Il negozio era munito di uno stretto bancone assai elevato, che correva su tre lati e, nella parte riservata ai clienti, era posato, sul pavimento, un braciere in porcellana che arrivava all’altezza dell’ombrello. Quel gesto che la donna aveva accennato, avrebbe potuto proseguirlo: appoggiarsi sul bancone, sporgersi in avanti. E se avesse allora teso il braccio, lasciando risalire espressamente il kimono, la bella sposa avrebbe potuto raggiungere il recipiente della colla.
Si era rivolta alla giovane per non disturbare il viaggiatore. Egli se ne accorse: «È questo che volete?» La donna balbettò sotto l’effetto della sorpresa, poi si riprese subito e disse graziosamente: «Sì, vi ringrazio infinitamente.» Si impossessò allora del recipiente della colla, ma poiché era seduta sul tatami, nella fretta di raggiungere il fondo del negozio, si spostò sulle ginocchia, la punta dei piedi leggermente sollevata.
Ella chiuse il pacchetto, dopo aver intinto di colla il dito che serve a stendere il rossetto. Poi, con un gesto morbido, asciugò il suo anulare con uno straccio. Questa volta, piegò il lembo della manica, lo fissò delicatamente all’obi, lasciando così apparire la fodera color del fiore di pruno, e tese nell’aria una mano d’alabastro. Al soffitto era appesa una bobina di nastro di un giallo pallido.
La donna aveva ben tirarsi, spalle, anche e kimono tesi, era a due dita dal raggiungerlo, senza però riuscirvi. L’aveva collocato troppo in alto l’ultima volta. Si lasciò sfuggire un piccolo grido.
Il suo chignon si muoveva a seconda dei movimenti della testa. Si spinse all’indietro. L’agitazione delle sue dita alla ricerca di una presa a cui aggrapparsi faceva pensare a una moltitudine di gru di origami che prendeva il volo dalle maniche di carta crespa rossa, nell’azzurro del soffitto.
Il viaggiatore, affascinato, vide allora il nastro svolgersi flessibile, catturando gli uccelli di carta. Nel corso dell’operazione il lembo della manica era ricaduto pesantemente. La donna lo prese fra le labbra per finire di annodare il pacchetto e emise un piccolo sospiro. «Ecco fatto!» La domestica raccolse il pacchetto e l’ombrello, corse verso l’uscita del negozio e scomparve con i suoi zoccoli da lavoro blu scuro.
Il viaggiatore riprese: «Vorrebbe mostrami quello che ha?» «Ma certo.» Delle due scatole che aveva tirato fuori gli presentò la più piccola. Poiché lo aveva fatto per delicatezza, il viaggiatore optò per la più grande…
Lo scaffale superiore della vetrina offriva un assortimento di paste e pasticcini occidentali presentati come dei fiori multicolore. I dolcetti alle noci erano sistemati in una scatola allungata sullo scaffale più in basso. La giovane donna riprese posto sul tatami. Era di profilo e manteneva gli occhi bassi; il suo colletto viola si rifletteva nel vetro che aveva aperto come la porta di una serra: in quel momento anche la cenere del braciere a cui aveva avvicinato le sue mani sembrò al viaggiatore diffondere del calore.
Le noci avvolte nello zucchero bianco cadevano nella scatola con un rumore soffocato, come una pioggia di petali di fiori di cui ella guidava la caduta con le sue dita graziose. Ne vide una ridente, no capricciosa, o piuttosto, no, dispettosa e hop! le scivolò dalle mani e andò a rotolare sul tatami. Quella noce era uno strano colpo di dadi nell’esistenza.
Il viaggiatore la vide raccoglierla con le dita, senza scomporsi minimamente e si apprestava a rimetterla tranquillamente nella scatola. Egli esclamò: «No, no! È per un regalo quando torno a Tōkyō.»
Il viso della donna arrossì bruscamente. Vergognandosi, si raddrizzò sulle ginocchia, poi, con uno stesso slancio, si sollevò velocemente per gettare la noce fuori dalla porta del negozio.
Ancora una volta, la manica lasciò apparire il gomito, simile a una piuma bianca accarezzata da un angelo. Fu allora che dal fondo del negozio, da dietro un paravento, ne uscì una voce metà d’uomo e metà d’animale, che assomigliava al grido di un merlo: «Niente sprechi! Niente sprechi!»… Crrrr, crrrr… si sentiva grattare lo zucchero nel retrobottega.
La sfortunata sposa, sconcertata, provò precipitosamente a risistemare la noce nella scatola ma, di nuovo, si fermò, interrogando con lo sguardo il viaggiatore. Tentò di introdurre il dolcetto nella sua manica, ma ancora esitava.
Allora congiunse le mani, palmo contro palmo, in un gesto di supplica e mettendosi il retro della sua mano fine contro la sua guancia al punto di far inclinare la sua acconciatura, si alzò e disse al viaggiatore: «Che devo fare? Di grazia, che devo fare?» «Mangiamone ciascuno una metà, insieme – disse il viaggiatore con una voce ferma – Non la divida con le mani! Sono di queste parti, conosco le noci glassate. Sono molto friabili. Si sbriciolano. La morda e la metà che resta…» «Sì.»
Mentre nei suoi grandi occhi aperti la sua vita intera vacillava – la vanità della sua esistenza passata, l’inferno che le riservava l’avvenire – la sua bocca si apriva graziosamente. Oh! Persino le sue gengive erano belle, irrigate com’erano dal sangue che affluiva al suo viso, e il viaggiatore, gli occhi fissi sulla noce, sentì la punta della sua lingua arrotolarsi in una pallina celestiale, tutta bianca.
La scimmia di montagna – una grossa scimmia! – divorò l’altra metà dalla mano della sposa, come delle bacche sulla neve e se ne fuggì senza ombrello, sotto la tenda scura che la pioggia raggiungeva in raffiche oblique. Passò davanti all’insegna dorata della più antica farmacia della città. Dal fondo del parco delle Nubi d’oro, si tendevano verso la strada i rami di un pino millenario che colpirono la sua vista, al punto che credeva che vi sarebbe stato sbattuto contro; girò la testa e vide la mola-tenaglia dei dolci incandescente agitarsi in tutte le direzioni. La sposa era crollata su suo marito che, con un braccio, l’aveva gettata a terra. L’orlo del kimono toccava terra, le mani giacevano sparse, la pelle era denudata, ma i capelli restavano lisci. Il viaggiatore, lo spazio di un istante, pensò alla principessa di un racconto di fate, immolata da un mostro diabolico.
Eppure, quel corpo, le sue membra, non si sarebbe potuto separali in due… Non era una noce.
In ogni caso, in quella noce appena passata nella sua gola come il fegato zuccherato del sacrificio, quando era nel profondo della foresta, il dio della montagna aveva dovuto inoculare uno strano filtro magico. Sulla cima dei pini, si rifletteva l’ombra della montagna… O almeno così lui credeva, mentre fuggiva a gambe levate.
Tale fu il racconto del viaggiatore.
Izumi Kyōka
(1873-1939)
Da: Les noix, la mouche, le citron, Editions Philippe Picquier, Arles, 1991.
Nouvelle traduite du japonais par Yūko Brunet et Isabelle Py Balibar.
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Una novella di Izumi Kyōka che mi ha colpito e ho voluto tradurre dal francese (solo una traduzione di servizio, s’intende, nessun pretesa!) per proporvi la prosa sensuale e ipnotica di questo scrittore a torto poco conosciuto in Italia. Sia in capolavori come Il monaco del monte Kōya (pubblicato in italiano da Marsilio) che in questo breve racconto, lo stile magistrale di Kyōka dispiega sottilmente la sua fascinazione per i lati oscuri della personalità degli individui e per gli esseri misteriosi che popolano l’immaginario giapponese. Un autore tutto da scoprire e da gustare, secondo me. Buona lettura!