Dopo aver girovagato su e giù lungo la collina, apriva un quaderno sulla scrivania e si metteva a scrivere il suo romanzo. Nella storia, uno studente di musica che ogni sera scendeva percorrendo il sentiero, esercitandosi nel canto di un lied, si innamorava della giovane donna sposata della casa a metà della collina, e di notte si insinuava in segreto nella sua stanza, attraverso l’entrata secondaria che guardava la collina. Essendo il ragazzo molto povero, per aiutarlo la donna aveva venduto tutti i suoi averi, finché alla fine non aveva preso il vaso gosu akae prediletto da suo marito e nel profondo della notte l’aveva portato fuori sul sentiero, con l’intenzione di regalarglielo. Quella volta, allacciati in un abbraccio, il vaso era caduto dalle mani del ragazzo, spaccandosi in due parti esatte.
Mentre descriveva l’amore che legava i due, Chigako si ispirava talvolta alle scene del libro tradotto quattro anni prima, Luna di miele.* Disegnando i sentimenti della donna mentre introduceva in casa un uomo di nascosto dal marito, Chigako, che mai nella vita reale aveva osato tanto, assaporava il gusto della vendetta verso Keisaku.** La rottura del vaso era la catarsi di questa vendetta. Dopo aver trasferito nella scrittura le sue pulsioni licenziose, porgeva l’orecchio ai suoni della collina, negli occhi un sorriso ammaliante.
Cadeva una pioggia torrenziale, quella notte.
Sdraiata sul letto, Chigako ascoltava rapita lo scrosciare impetuoso di una cascatella che dal sentiero si rovesciava sulla rupe adiacente alla sua stanza. La pioggia cadeva con violenza, come a voler bucare il tetto e il soffitto, come a trafiggerle il petto. Rivide la scena dell’abbraccio degli amanti nel suo romanzo, il vaso rotto; e con il suono della pioggia che la cullava, prese sonno. Quando venne all’improvviso svegliata da uno scampanellio insistente, la notte era già avanzata, la pioggia cessata. Guardò l’orologio di fianco al letto: era quasi l’una. Il campanello dell’entrata secondaria sulla collina si trovava sotto un’arcata e restava quindi piuttosto nascosto. Posta e telegrammi infatti venivano recapitati dall’ingresso principale. Un ladro non avrebbe certo suonato. Il campanello, rifletté indugiando dinanzi alla porta. Di nuovo si sentì una scampanellata continua, ancora più insistente.
“Ma… chi è?” Chiese mentre Keisaku, la faccia assonnata, scendeva dal piano di sopra. “Chi può essere a quest’ora?”
“Chiunque sia, non possiamo certo lasciarlo lì… Maledizione” imprecò Keisaku attraversando l’atrio e girando il chiavistello.
Uscì all’aperto, fece due o tre passi prima di ritrovarsi la strada chiusa dalla staccionata, dove si fermò sentendosi imprigionato nello spazio angusto. Poi si voltò verso il cancello, scrutò perplesso e in quell’istante il suono cessò; ora si sentiva solo una specie di fruscio, il contatto di qualcosa. Sbirciando attraverso la cancellata, vide due eteree figure bianche dimenarsi l’una contro l’altra. Keisaku aprì il cancello facendo un gran baccano. In quel momento si udì il grido di una donna e due corpi schiacciati proprio contro le inferriate del cancello sembrarono slacciarsi da un abbraccio. “Chi va là?” urlò Keisaku. La sua voce indignata era quella di un vecchio decrepito. Non appena l’indistinta massa bianca si mosse, parve dividersi in due, precipitandosi giù per la collina. Avvolte dalla luce dei lampioni, svolazzarono leggiadre la bianca blusa di una ragazza e la candida camicia di un giovane.
“Piccoli bastardi! In un posto del genere venite a baciarvi?” continuò Keisaku irritato, rivolto a Chigako che l’aveva seguito fuori subito dopo. “Schiacciavano il campanello senza neanche accorgersene. Si sente solo da dentro.”
“E allora?…”
Chigako, avvolta in una dimensione di sogno, restò ad osservare le bianche figure che correvano lungo la collina. Titubava, affascinata: la scena del suo romanzo pensata poco prima di addormentarsi si stava sovrapponendo alla realtà. Pareva quasi che le due figure rotolassero giù, tanta era la fretta di fuggire, finché non si dileguarono dietro la curva, dopo essersi abbracciate un’ultima volta. Dalla piega della collina cinta in un’ampia manica provenne l’abbaiare di un cane. I volti attoniti, come invasati da forze sovrannaturali, Keisaku e Chigako restarono sul sentiero luccicante di pioggia. Si fissarono, un ambiguo sorriso intorno alle bocche sdentate.
Enchi Fumiko
(1905-1986)
Traduzione di Cristiana Ceci.
Da: L’ammaliatrice (Yō, 1956) in Racconti dal Giappone, a cura di C. Ceci, Milano, Mondadori, 1992, 2° vol., pp. 287-290.
* Un romanzo pornografico che era stato chiesto alla protagonista, Chigako, di tradurre dal giapponese in inglese.
**Si tratta del marito di Chigako.
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Una delle scrittrici più importanti della letteratura giapponese moderna, Enchi Fumiko ha saputo raccontare la condizione della donna in Giappone attraverso un romanzo come Onnazaka, (ristampata da Safarà nel 2017 la storica traduzione di Lydia Origlia) mentre ha affrontato e splendidamente tratteggiato con grande sottigliezza e maestria l’intreccio di personaggi e relazioni fra letteratura di periodo Heian (di cui Enchi era profonda conoscitrice) e teatro nō in Onnamen (Maschere di donna, tradotto da Graziana Canova Tura e edito da Marsilio nel 1999). La recentissima traduzione di Namamiko, l’inganno delle sciamane (Safarà 2019, a cura di Paola Scrolavezza) ci presenta una ricostruzione affascinante degli intrighi e dei segreti della corte Heian, un romanzo che riecheggia le atmosfere del Genji monogatari, il capolavoro che Enchi aveva del resto tradotto in giapponese moderno a partire dalla fine degli anni Trenta.