C’era una volta un vecchio, si chiamava il Vecchio Tagliabambù. Nel terzo mese di primavera salì su una collina per contemplare il paesaggio e si imbatté per caso in nove fanciulle che stavano preparando una zuppa di erbette primaverili. Erano tutte di un fascino senza eguali, i loro volti belli come fiori. Le fanciulle lo chiamarono e ridendo gli dissero, “Vieni, nonnino, vieni a soffiare sul fuoco!”. Il vecchio acconsentì di buon grado e sbadatamente si avvicinò e si sedette fra loro. Dopo un po’ le fanciulle cominciarono a ridere e a darsi di gomito, chiedendosi: “Chi è stata a chiamare questo vecchio?”. Allora il Vecchio Tagliabambù si scusò e disse: “Non mi sono reso conto di essermi imbattuto in esseri celesti. Il mio cuore è confuso e io non so che fare. Se me lo permettete, ripagherò con una poesia la colpa di essermi avvicinato a voi in modo così familiare”. E quindi compose la seguente poesia lunga (accompagnata da due poesie brevi):
Quando ero un neonato
e di un neonato avevo i capelli,
ero cullato da mia madre
dalle mammelle cadenti.
Quando ero in fasce
e andavo gattoni
avevo una corta veste foderata di fibre di gelso,
senza maniche.
Fanciullo,
i capelli mi arrivavano sul collo,
avevo una veste con le maniche
tinta a due colori.
Quando avevo la vostra età,
splendide fanciulle,
i miei capelli erano nerissimi,
come la carne del mina.
Fin qui erano lunghi,
col mio bel pettine
li pettinavo,
li raccoglievo
e li legavo sul capo,
o li lasciavo slegati
alla guisa dei fanciulli.
Avevo una veste di seta,
di bellissima porpora
con sfumature rosse
a grandi disegni,
avevo una veste
tinta con essenza di ontano
di Tōsato Ono
di Suminoe,
ricamata con filo
di broccato di Koma
e le indossavo una sull’altra.
Quante fanciulle hanno filato
fili di lino
quante belle fanciulle hanno tessuto
fili di seta,
tela tessuta
con fili battuti,
tela tessuta
e asciugata al sole.
La figlia del governatore
mi volle come sposo
e mi donò
calzature d’oltremare
tessute in due colori.
Quando indugiavo nel suo giardino,
per ripararmi dalle lunghe piogge
indossavo calzature nere,
cucite dagli artigiani di Asuka,
dove volano gli uccelli.
La udivo sussurrare:
«Non andar via».
Così mi mormorava la fanciulla
per trattenermi
e mi donò
una fascia di seta
di colore azzurro chiaro
con cui mi feci una stringa
per legare la mia cintura di Kara.
Me ne cingevo
la vita sottile
come quella delle api
che ronzano
sulle tegole del palazzo
del dio del mare,
e a lungo contemplavo
e rimiravo
il mio volto
su nitidi specchi.
Giungeva la primavera
e vagavo per i campi.
Forse pensavano
che ero bello?
I fagiani
mi volavano intorno cantando.
Giungeva l’autunno
e mi recavo sui monti.
Forse pensavano
che ero affascinante?
Anche le nubi del cielo
ti stendevano ai miei piedi.
Tornavo a casa
e passando per le strade
le dame di Palazzo
su cui splende il sole
e le guardie di Palazzo
fiere come bambù
furtivamente
mi osservavano.
«Di quale nobile casa è il rampollo?»,
pensavano di me.
Proprio così!
Ma oggi, ahimè
queste fanciulle
non credono
che in passato
io fossi così splendido,
«Sarà vero?», si chiedono.
Proprio così!
Anche un saggio
del passato,
volendo indicare un esempio
per le generazioni future,
volterebbe il carro
che porta a morire i vecchi*
e li ricondurrebbe a casa
e li ricondurrebbe a casa.
Due commiati:
Quando si muore giovani,
se ne è dispensati,
ma quando si vive a lungo
non credete che anche voi, fanciulle,
avrete i capelli bianchi?
Quando anche voi,
fanciulle,
avrete i capelli bianchi,
non sarete forse derise
dai giovani in questo stesso modo ?
Dal Man’yōshū. Raccolta delle diecimila foglie.
Libro XVI: Poesie che hanno una storia e poesie varie
(VI-VIII sec.)
Traduzione di Maria Chiara Migliore.
Roma, Carocci, 2019, pp. 37-45.
*Allusione a un celeberrimo aneddoto cinese incentrato sulla virtù della pietà filiale.
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Dall’antologia poetica più antica del Giappone, la poesia lunga (chōka) che racconta l’incontro fra un Vecchio Tagliabambù (figura ricorrente nella letteratura classica nipponica) e alcune fanciulle celesti ha la freschezza di certi componimenti della poesia arcaica, testimonianza di un’era lontana sui ritmi di un canto.