Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Fiori fra le macerie.

Shinsui Itō (1898-1972), Estate, 1931.

Era l’estate del ’41. Dal gennaio di quello stesso anno le era stato impedito di svolgere il suo lavoro di scrittrice e da quel momento aveva vissuto ai limiti della sopravvivenza.

Da[l carcere di] Sugamo, Jūkichi non aveva mai approvato la sua decisione di vivere da sola in quelle condizioni e più volte le aveva consigliato di trasferirsi dal fratello Yukio. Ma l’orgoglio l’aveva trattenuta. Erano vent’anni che non viveva più con loro e l’opinione comune dei suoi familiari era che si trovasse in difficoltà a causa delle sue scelte personali; tornare da loro proprio adesso che non aveva più un reddito le sembrava perciò un cedimento intollerabile. Rifiutare i pressanti inviti della famiglia del fratello, d’altra parte, sarebbe sembrata una scortesia. Di questi problemi Hiroko aveva più volte accennato a Jūkichi in molte sue lettere.

Anche tre anni prima le sue pubblicazioni erano state censurate per oltre un anno. Ma quella volta non si era ritrovata da sola; erano ancora tempi in cui sopravviveva negli intellettuali la capacità di indignarsi contro le misure repressive del governo e intorno a lei si era creata una fitta rete di solidarietà. Nel ’41 invece la situazione era completamente diversa. Tra gli scrittori “vietati” e quelli “consentiti” era stato interposto un filo spinato, la Legge sul mantenimento dell’ordine pubblico, che aveva creato un vuoto incolmabile. La rabbia di Hiroko cresceva tanto più quando vedeva arricchirsi tutti quegli intellettuali che si erano messi a sostenere la guerra contro la Cina e il governo giapponese in Manciuria. Era rimasta proprio sola, come un argine isolato di un fiume in piena.

Non si trattava semplicemente di una questione di ristrettezze economiche; anche la sua mente era lacerata. E come riuscire a riferire a Jūkichi quell’angosciosa sensazione di soffocamento spirituale che l’attanagliava? Nei pochi minuti di colloquio loro consentiti, cercava di mostrarsi allegra e sempre sorridente. Per lui era un grande sollievo. Dopo i colloqui, andava a trovare Yukio, gli amici che veramente avrebbe avuto piacere di vedere abitavano tutti troppo lontano, e lì la sommergevano di una quotidianità fatta di voci e gesti estranei al suo mondo. E ogni volta se ne andava sempre più convinta di voler restare da sola nella casa di Mejiro.

Ma com’era calda e soffocante quella stanza al primo piano! E quanto greve, e grigia, la grande scrivania dove custodiva i suoi scritti.

Una sera era uscita senza una meta precisa, e si era ritrovata sul viale della stazione. Lì aveva notato un fioraio, un bel negozio tutto riparato da stuoie e con il marciapiede antistante gremito di vasi di fuchisō.* Le piante, rigogliose di foglioline ancora imperlate d’acqua, le diedero una sensazione di vita e di freschezza. Tutta eccitata, decise di prenderne una. Dopo averla comperata, il negoziante gliela portò a casa quella sera stessa e subito Hiroko la sistemò sulla verandina. Era tanto tempo che non si dedicava alle rilassanti attività quotidiane e per giorni e giorni innaffiò il fuchisō con gran cura. Ma a poco a poco aumentavano i disagi, la vita diventava impossibile e la pianta sembrava soffrire di quell’estate torrida e tormentata. Iniziarono a seccarsi le prime foglie. Hiroko la guardava crucciata; smise di innaffiarla.

Ormai non ricordava neppure più come fosse riuscita a sopravvivere in quell’estate lontana; rammentava invece i cespugli di hagi ** in fiore davanti alla stazione di Sugamo, Quando i treni passavano tagliando rapidi l’aria, scompigliavano le chiome degli hagi con violenti e repentini scossoni. I nervi di Hiroko avevano percepito la violenza sulle piante di hagi come altrettanti colpi inferti a lei. […]

Una mattina, era ancora molto presto, scorse da dietro il paravento dove stava dormendo, una testa con un elegante cappello: era un uomo della polizia politica che si era introdotto in casa forzando la porta del bagno. Fu portata via.

Affidò il vaso di fuchisō ad un amico. La pianta tuttavia morì e restò abbandonata nella verandina. Ne ritrovò un’altra uguale, tutta fiorita, sistemata dinanzi alla finestra della decima cella della sezione femminile, nel carcere di Sugamo. Nonostante fosse a ridosso della finestra, giaceva immobile, neppure un’ineffabile fremito sulle foglioline delicate. Hiroko la fissava in continuazione, nei lunghi giorni e nelle lunghe notti, senza riuscire a coglierne il benché minimo movimento. Un’estate così non si ricordava da sessant’anni e l’edificio dal tetto di vetro inclinato si surriscaldava fino a diventare una serra riarsa.

Immersa nei ricordi, Hiroko singhiozzò. Non sarebbe mai riuscita a comunicare a Jūkichi la disperazione di quei tempi. Da quando era tornato si sentiva progressivamente liberata da tutte le angosce accumulate ma, per la prima volta, si stava anche rendendo conto di quanto l’aveva indurita quella strenua lotta per sopravvivere. […]

Si alzò e appoggiò una mano sulle spalle di Jūkichi, ancora intento a scrivere le sue relazioni. «Che c’è?». «Voglio scrivere». Gli prese una mano e gliela strinse.

«Voglio scrivere un romanzo. Aiutami». Jūkichi le sorrise dolcemente, un po’ divertito dal suo eccitamento quasi infantile. «Ehi, aspetta un momento!» Con la penna tenuta sulla punta delle dita, fece finta di disegnare dei cerchi sulla fronte di Hiroko, come in un incantesimo. «Sono io che dovrei dirti di scrivere. Non confondiamo i ruoli!».

In quel periodo stava lentamente tornando allo scoperto una nuova cerchia di intellettuali. Scrittori e critici, con cui Hiroko aveva già lavorato dieci anni prima, stavano cercando di reinterpretare il nuovo Giappone, dopo che per troppo tempo era stata loro tappata la bocca.

Miyamoto Yuriko

(1895-1951)

Traduzione di Cristiana Ceci.

Da: Fuchisō. Fiori fra le macerie (1947), Paese (TV), Pagus Edizioni, 1990, pp. 42-45.

*Eragrostis ferrugine, pianta simile alle piantine di riso, dalle foglie verdi lunghe e sottili.

**Lespedeza.

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Socialista, femminista, scrittrice militante che non rinnegò mai le sue idee non cedendo neppure davanti ai duri interrogatori della polizia politica, Miyamoto Yuriko visse una vita travagliata di carcerazione, fame, infermità ma proseguì con forza e strenuamente il proprio percorso politico, senza alcun cedimento. Il breve romanzo Fuchisō (unica traduzione in Italia di una sua opera) racconta la riunione della protagonista, l’intellettuale Hiroko (sorta di alter ego della scrittrice), con il marito dopo dodici anni di separazione durante i quali entrambi sono stati imprigionati per essersi rifiutati di abiurare ai propri ideali. Un racconto che, nella sua brevità non scevra di lirismo, sa diventare documento di un’epoca della storia giapponese ancora troppo trascurata dal grande pubblico.