Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Desiderio di un eremo.

Ritsurin kōen, Takamatsu (isola di Shikoku), agosto 2002.

 

Da tutte e tre le finestre al primo piano della villetta si vedevano le montagne. 

Da quella a oriente sembravano a un tiro di schioppo, basse come colline, pareva che bastasse allungare la mano per toccarle. Erano coperte di pini rossi, e stando seduti davanti alla finestra si aveva I’impressione che la casa si trovasse in mezzo ai boschi. 

Quando era venuta ad abitare lì, il paesaggio era tutto bianco e la neve cadeva senza interruzione, una lunga garza che si srotolava senza fine. Al di là della bianca cortina, i tronchi sottili dei pini si confondevano, e tra gli alberi l’oscurità era più densa, con riflessi madreperlacei. 

Era uno spettacolo incredibilmente bello. Dimenticando il freddo, appoggiata con i gomiti alla finestra spalancata, Shun-ei rimaneva a contemplarlo a lungo. A forza di guardare, aveva I’impressione che a muoversi non fosse la neve, ma i pini sullo sfondo. I tronchi alti e diritti le parevano gambe di bambine nude e abbronzate dal sole, innumerevoli giovani gambe di ragazzine che corressero a gara in silenzio. Ogni tanto una folata di vento faceva fluttuare la cortina di neve come una vela, e le gambe pestavano il suolo tutte insieme. 

I fiocchi di neve le si posavano sulle ciglia e sulla testa appena rasata, restando attaccati come petali di fiori. Sciogliendosi le rotolavano giù per la nuca, e il freddo penetrava sotto la pelle. Durante la giornata Shun-ei, senza rendersene conto, continuava a portare la mano alla testa, e ogni volta provava una stretta al cuore. 

Da quelle finestre aveva visto la neve cadere da dicembre a marzo. Era raro che nevicasse la sera, ma il mattino sempre, come un saluto. In quel quartiere a nordovest di Kyoto, perfino quando si cominciava ad avvertire l’arrivo di aprile capitava che nelle prime ore della giornata scendesse un leggero nevischio. 

Un mattino, all’improvviso, Shun-ei si rese conto che erano diversi giorni che non nevicava, il sottobosco si era rinfoltito e sui cespugli secchi, che durante l’inverno erano rimasti avvolti da un alone grigio, erano apparsi innumerevoli germogli, un manto di perle color giada. Era un cambiamento che rinvigoriva e allargava il cuore. Benché avesse già vissuto tanti anni, a Shun-ei sembrava di posare per la prima volta gli occhi sui germogli di vita nuova. 

In quei giorni svegliandosi apriva subito la finestra per controllarne la crescita. Le gemme verdi si gonfiavano ogni mattina con un vigore incredibile, sotto i suoi occhi protendevano le loro cellule nelle quattro direzioni, con l’energia di un’ameba, e alla fine prendevano la forma di dolci giovani foglie. Appena nate, splendevano di un verde tenero e trasparente e fremevano alla più lieve carezza del vento. 

Al loro tremolio innumerevoli gocce di luce verde giada si sprigionavano tutte insieme. 

Quando i rami color cenere dei cespugli si ricoprirono di foglie nuove, il bosco cominciò a risuonare tutto il giorno del canto degli uccellini. 

Dalle due finestre della stanza accanto si vedevano a una certa distanza i monti a nord, e in lontananza, vagamente, la catena occidentale. I monti a nord, al di là della selva di antenne televisive sui tetti delle case della nuova zona residenziale, formavano una parete di un verde denso che dissimulava le sue ondulazioni. La catena a ovest invece era un susseguirsi infinito di dolci cime, che sfumavano confondendosi nelle gradazioni dell’indaco, del grigio-azzurro, del viola. A vista d’occhio andavano prendendo tonalità delicate che variavano col movimento del sole e il mutare della direzione del vento. Il colore e la luce del cielo, che erano diversi al mattino, a mezzogiorno e alla sera, posavano luci e ombre sempre diverse, per cui nella stessa giornata lo spettacolo non era mai uguale. 

Nel cielo del tramonto, dove restava una traccia d’incendio, la catena occidentale su cui si allungava un color indaco scuro affascinava come una stampa appena finita, mentre i monti a nord in ombra, fumanti di pioggia, ricordavano un dipinto medievale a inchiostro di china. E intanto il limpido tempo dell’inazione, come sabbia secca, seppelliva a una rapidità incredibile, indefinitamente, tutto ciò che era intorno a Shun-ei. 

Lei rievocava nello specchio il suo viso ancora incorniciato dai capelli, che però spariva in un attimo. Non riusciva a sovrapporlo a quello della monaca che vedeva riflessa. 

Sforzandosi di ricordare la propria immagine di un tempo, provava una leggera nostalgia accompagnata da un senso di disagio di pari intensità.  

Stava passando in quella villetta il periodo di noviziato di cento giorni. Ben presto, come si era impegnata a fare, si sarebbe recata in uno dei monasteri del monte Hiei per un ritiro di due mesi. […]

All’improvviso, dimenticando di trovarsi in una casa d’affitto di una zona residenziale nuova, Shun-ei ebbe l’impressione fortissima di essere seduta nel rifugio sognato, quello che amava chiamare col nome dolce e leggero di “eremo”. Un eremo in una valle fra i monti, lontano dal consorzio umano, dove il sole scaldava le pietre su cui si sedeva per meditare e una pergola di fiori di glicine dal profumo dolcissimo proiettava un’ombra morbida.

Il pomeriggio avrebbe bevuto da sola il tè sul cuscino verde dell’erba e e farfalle e le libellule, come ospiti, sarebbero venute a svolazzarle intorno. L’ombra del bosco in una vasta pianura, l’ombra di una roccia su una scogliera in capo al mondo. Se avesse trovato il suo rifugio, sarebbe diventato il centro dell’universo in espansione, e le costellazioni si sarebbero lentamente avvicendate ad avvolgere il suo sogno.

Il vento avrebbe attraversato l’eremo spoglio di oggetti, sotto al cuscino avrebbero cantato i grilli, le tazze si sarebbero riempite di petali di fiori di ciliegio, le farfalle e le libellule sarebbero volate nella casa senza fare differenza tra interno ed esterno. Le dita fredde della luna le avrebbero dolcemente accarezzato le palpebre, il calore del suo corpo avrebbe sciolto la neve. Non si sarebbe udito il rumore di passi di visitatori…

 Setouchi Jakuchō

[nata Setouchi Harumi]

(1922)

Traduzione di Antonietta Pastore.

Da: Il monte Hiei (Hiei, 1979), Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 165-171.

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Monaca e femminista, traduttrice sensibile del Genji monogatari in lingua giapponese moderna, donna appassionata, intellettuale raffinata, Setouchi Harumi o, con il nome che ha scelto quando è diventata monaca, Jakuchō (ossia “colei che ascolta  in silenzio la quiete”) è un personaggio molto amato in Giappone e una scrittrice di rara sensibilità capace di farsi interprete delle donne giapponesi del nostro tempo, ancora in cerca di un’autoaffermazione che resta soffocata da una società fortemente sotto il predominio maschile.

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