Mukashi mukashi. Leggere, per non sentirsi soli. Kenkō, ad esempio.

Nara, Kōfukuji, settembre 1998.

Un tale voleva che suo figlio diventasse monaco e gli disse: «Studiando apprenderai il principio della retribuzione e predicando potrai guadagnarti da vivere». Il giovane seguì i dettami paterni ma per diventare predicatore imparò per prima cosa ad andare a cavallo: il suo stato sociale non gli consentiva infatti di avere un palanchino o una carrozza e quindi pensò che quando fosse stato invitato a celebrare una funzione e gli avessero mandato incontro una cavalcatura, sarebbe stato avvilente cadere per terra perché non sapeva stare in sella.

Poi, pensando che l’ospite sarebbe rimasto deluso se lui, al trattenimento dopo la funzione, si fosse dimostrato privo di ogni talento artistico, si mise a studiare gli hayauta, le cosiddette ballate conviviali. Così un po’ alla volta divenne esperto in queste due discipline, ma mentre vi si applicava con zelo per essere sempre più bravo, non ebbe più il tempo per imparare a predicare e divenne vecchio. Non è solo quel monaco a comportarsi in tal modo: capita a tutti gli uomini del mondo.

Finché si è giovani si cullano in cuore le aspirazioni più varie che si proiettano in un futuro lontano: elevare la propria condizione, diventare maestri d’arte, acquisire vastità di sapere. Così, pensando alla vita con confidente sicurezza, si indulge alla pigrizia: spendiamo tutto il tempo affannandoci esclusivamente sulle questioni più prossime e urgenti, e intanto si diventa vecchi senza aver realizzato nessuno dei sogni giovanili. Alla fine resta il rammarico di non aver raggiunto la maestria in nessun’arte, e di non aver migliorato, come si sperava, la propria condizione; ma ormai non c’è più il tempo per cambiare le cose e ci si avvia spediti verso il declino, come una ruota che precipita per un pendio.

Stando così le cose, nel corso di tutta la vita bisogna vagliare con cura, tra i diversi progetti che ci stanno a cuore, quali contano più degli altri e individuato quello che vale di più, trascurare tutto il resto e dedicarsi esclusivamente a realizzare quell’unico obiettivo. Tra le numerose questioni che si affacciano nel corso di una giornata o anche in un’ora soltanto, bisogna occuparsi di ciò che procura anche un pur minimo vantaggio, lasciar perdere ogni altra cosa e impegnarsi solerti su ciò che importa davvero. Se però si resta abbarbicati a una miriade di progetti e non si è disposti a sacrificarne alcuno, non si riuscirà a realizzare nulla. […]

Allo stesso modo, un uomo che abita nella capitale e abbia un affare urgente a Higashiyama, se dopo essere arrivato lì si rende conto che gli converrebbe invece andare a Nishiyama, dovrebbe ritornare indietro subito per la porta che ha varcato e recarsi a Nishiyama. Invece pensa: «Ora che sono arrivato fin qui tratterò prima di tutto questa faccenda. L’affare di Nishiyama non ha una scadenza precisa e quindi me ne occuperò al mio ritorno». In tal modo L’indolenza di un momento diventerà l’indolenza di tutta la vita. Si deve temere una simile eventualità.

Se si è determinati a fare un certa cosa non bisogna dolersi se gli altri progetti non vengono più realizzati, e non bisogna sentirsi mortificati per lo scherno altrui. Non si può realizzare l’unica cosa che conta se in cambio non si rinuncia ai progetti più diversi.

Un giorno, durante un’affollata riunione, un tale disse: «Si usano entrambe le espressioni: musuho no susuki [miscanto] e masoho no susuki [miscanto], e altre ancora: il sant’uomo di Watanabe conosce qual è la versione corretta». Il monaco Tōren che era lì presente lo udì e poiché stava piovendo chiede se qualcuno gli poteva prestare un mantello da pioggia e un copricapo: «Voglio andare da quel sant’uomo a domandargli che mi illumini sulla questione». «Quanta fretta! – osservò allora uno – Aspettate che spiova». «Che bestialità – esclamò -. Forse che la vita umana si ferma per aspettare che smetta di piovere? Se intanto io morissi o defungesse il sant’uomo, come sarebbe più possibile informarsi?».

Si racconta che detto questo il monaco se ne sia andato via di corsa e alla fine sia riuscito nel suo intento: un comportamento il suo che mi sembra ammirevole e prezioso. Anche nel Lunyu* pare sia scritto: «Una rapida azione porta immancabilmente al successo». Come Tōren aveva voluto chiarire la questione del miscanto,** allo stesso modo il suddetto uomo che voleva essere monaco avrebbe dovuto meditare sul karma che porta all’illuminazione.

Kenkō Hōshi

(1283?-1350?)

Da Ore d’ozio. Tsurezuregusa, a cura di Adriana Boscaro, Marsilio, Venezia,  2014, pp.  155-157.

Traduzione di Luisa Randazzo, rivista da  Inagaki Kiyoko e  Asai Tomoko.

*Lunyu ossia i  Dialoghi di Confucio.

**Musuho no susuki e masoho no susuki sono due espressioni che fanno riferimento all’erba miscanto, vengono però utilizzate in contesti poetici diversi.  Ecco la ragione della necessità di verificarne l’uso appropriato.

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“Nelle mie ore d’ozio, seduto davanti al calamaio, vado annotando giorno dopo giorno, ogni pensiero che mi passa per la mente”, scrive il monaco Kenkō attorno al 1330. Perché non seguire il suo esempio e, mentre ci godiamo le sue noterelle “seguendo il pennello”, non trascriviamo le nostre riflessioni, i nostri ricordi, i nostri pensieri su ciò che ci accade in questi giorni difficili? Piccole note, piccoli pensieri, come facevamo da bambini. 

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