“Voglio rivelarti tutto, il buono e il cattivo, questioni mondane e dolori intimi, cose di cui non posso realmente parlare per lettera, ma, per quanto deplorevole sia la persona di cui si parla, forse non si dovrebbe mai dire tutto. Troverai che la vita è piena di spine. Guarda quanto sono inquieta, angosciata! Devi scrivermi quello che pensi. Non importa se hai meno da dire di tutte le mie vane ciarle, gradirei tue notizie. Bada, se questa lettera finisse, sì pure per breve, in mani sbagliate, sarebbe un disastro, ma son tante le cose che ancor voglio dirti.
Di recente ho stracciato e bruciato gran parte delle mie vecchie lettere e carte. Con le superstiti ho fatto casette da bambola la primavera scorsa e, da allora, non ho più tenuto una corrispondenza da potersi dir tale. Ritengo di non dover usare carta nuova, quindi temo che la presente non farà tanto bella figura, ma non è per sgarberia: ho le mie ragioni.
Per favore, restituiscimi questa lettera non appena l’avrai letta. Ci saran parti difficili a leggersi e luoghi ove ho lasciato fuori una parola o due, ma non badarci e leggi da cima a fondo. Vedi dunque… mi angoscio tuttora per quello che gli altri penseranno di me, e, se dovessi ora trarre delle conclusioni sul mio conto, dovrei ammettere che conservo tuttora un forte attaccamento per questo mondo. Ma che cosa posso farci?”(1)
Leggere come sto facendo in questi giorni Le Dit de Murasaki, di Liza Dalby, uno dei tanti libri acquistati la scorsa estate a Parigi, nella preziosa libreria Junku di rue des Pyramides, è compiere un viaggio a Heian. È vedere prendere vita le figure semicancellate di un emakimono, come le pagine del manoscritto conservate al museo Tokugawa di Nagoya. È l’appassionante racconto della vita di Murasaki, una riscrittura delle sue memorie a partire dai frammenti superstiti, dai diari delle dame di corte, dallo stesso suo capolavoro, il Genji monogatari.
Liza Dalby è l’antropologa autrice di La mia vita da geisha (pubblicato in italiano da Sperling & Kupfer) che, nonostante il titolo accattivante, è il resoconto del suo lavoro di ricerca “sul campo” fra le geisha di Pontochō.
Le Dit de Murasaki è invece opera di finzione, ma una finzione plausibile perché poggiante su una solida preparazione condotta su fonti originali, documenti, studi autorevoli. Per chi ha letto o studiato (e amato) il libro di Ivan Morris, Il mondo del Principe Splendente (edito in Italia da Adelphi), l’occasione per riscoprire l’epoca Heian attraverso un romanzo che resta la storia avvincente di una vita tracciata con pennellate delicate ma decise, punteggiata di waka certo, ma non priva di realismo. E, per fortuna, senza mai scivolare nella rete soffocante del sentimentalismo.
Per chi non ha dimestichezza col francese o con l’inglese (il titolo originale del romanzo è The Tale of Murasaki) resta solo da augurarsi che qualche editore italiano prenda l’iniziativa di tradurre il libro della Dalby. Quando uscirà la nuova traduzione italiana del Genji monogatari, ormai imminente, potrebbero essere parecchi i lettori interessati a questo delizioso romanzo di una vita.
L’edizione che sto leggendo de Le Dit de Murasaki è pubblicata dalla casa editrice Philippe Picquier di Arles.
(1) Murasaki Shikibu, Diario e memorie poetiche, trad. dall’inglese di P.F. Paolini, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 116-117.