Che Obon sia una straordinaria un’occasione di festa, e non solo di ricordo, lo abbiamo imparato non tanto (o non solo) sui libri, quanto peregrinando per il Giappone, nelle nostre estati.
Le danze nelle serate fresche di Sapporo, l’elegante parata dell’Awa Odori di Tokushima, la trascinante processione danzante di Kumamoto, le indimenticabili passeggiate fra le luci e il canto dei sutra nelle notti tranquille del parco di Nara, gli eleganti yukata dei vari gruppi femminili nel matsuri di Yamagata: tutto, tutto ci ha lasciato qualcosa dentro. Il gusto di stare insieme, di far festa insieme, di danzare, bere, scherzare, giocare, divertirsi, insomma, tutto quello che una sola, felice parola racchiude in sé – asobi, – beh, quello lo abbiamo imparato nelle strade, sull’asfalto bollente del Giappone d’estate.
Ma il ricordo più bello, quello più struggente, quello per cui ho più nostalgia, è il nostro Obon intimo, l’anno scorso, a Nagasaki.
Obon, a Nagasaki, è vissuto con particolare intensità: si fanno piccoli fuochi d’artificio in famiglia (comprati nei fornitissimi negozi del grande quartiere cinese, Shinchimachi), si portano al fiume piccole barche di carta recanti luci e decorazioni, si sparano mortaretti nelle processioni che si recano ai corsi d’acqua.
Ospiti della famiglia Mori, nella sua casa su una delle colline di Nagasaki, la vigilia di Obon siamo usciti la sera davanti alla casa, per fare tutti insieme hanabi, i fuochi. Il clima è festoso, quasi un Capodanno mediterraneo. Dai cimiteri buddhisti, nella valle di fronte, nel buio della sera calda e umida, giungono botti e spari di mortaretti, piccoli fuochi baluginano, spegnendosi in un attimo. Avevamo visto, rientrando dal quartiere cinese dov’eravamo andati per rifornirci di hanabi, piccoli gruppi di persone uscire, nella sera, dalle loro case, carichi di pacchetti. Sono le famiglie che escono per andare a trovare gli antenati e e festeggiarli direttamente sulle tombe. Si fa così, a Nagasaki. Solo i cimiteri cristiani restano silenziosi questa sera, ci fanno notare.
Ritorniamo bambini, con le nostre girandole, le spirali, i palloncini che appendiamo all’albero davanti alla casa, le fontane di fuoco che sembrano non spegnersi più.
Il giorno dopo è Obon. La sera andiamo in una casa in campagna, da certi parenti che coltivano un’uva spettacolare, i cui acini giganteschi e succosi ci vengono offerti con semplicità e gentilezza.
Uno zio anziano è morto qualche mese prima, per questo la barca che accompagneremo al fiume è particolarmente grande e addobbata con particolare cura. Davanti alla casa, come sempre quando è avvenuto un lutto nel corso dei mesi precedenti, è appesa un’enorme lampada in carta su cui è il mon di famiglia. In casa, parenti vanno e vengono, a rendere omaggio all’altare buddhista, un butsudan imponente su cui sono offerte di frutta e incensi. Si suona la campana, si prega, ci si inchina. Si sente il suono ipnotico di sutra salmodiati da un monaco.
Usciamo nella notte. L’enorme nave di carta è posta su un camioncino. A noi che la seguiamo vengono date chōchin da portare per rischiarare la notte della campagna, del tutto priva di luci. Viene distribuito del cotone idrofilo da introdurre nelle orecchie: lungo la strada, infatti, i nipoti del defunto sparano mortaretti a ripetizione. È un modo gioioso di ricordarlo, che riempie il cuore. Sono lampi che rischiarano la notte, botti che richiamano le anime degli antenati. Tutto intorno il nero della notte d’estate. Sole luci, le stelle.