Neppure questa volta abbiamo fatto i conti noi due Kyōto, ancora resti un nodo irrisolto lungo i miei viaggi in Giappone. Eppure ti amo. Eppure ti odio. Non sopporto la tua bellezza distante, la tua altera bellezza. Ma ogni volta mi cattura e mi affascina.
Sento attorno a me la presenza di molte voci che nel corso dei secoli hanno raccontato storie, hanno composto versi. E inevitabilmente mi tornano alla mente brandelli di racconti, versi sparsi, atmosfere, suoni. E inevitabilmente sento il bisogno di raccontarli a chi mi accompagna, di rendere più manifesta questa nascosta bellezza forgiata dai secoli e dagli uomini. Sarà lo stesso canto di cicale, quello che accompagnava Nishida Kitarō nelle sue passeggiate quotidiane, lungo il sentiero che accompagna il ruscello nella passeggiata fra il Gingakuji e il Nanzenji che ha preso il suo nome? Saranno gli stessi fiori, quelli che ammiravano le sorelle Makioka ogni anno in aprile allo Heian jingū, quelli che descrive Tanizaki in Sasameyuki (Neve sottile)? E le campane del Chion-in, o di Kiyomizu, sono sempre le stesse di cui parlava Kawabata nell’incipit di Utsukushisa to kanashimi to (Bellezza e tristezza)? Capolavori d’arte nascosti in templi e musei, i dipinti di Ogata Kōrin, le chawan di Chojirō, i buddha e i bodhisattva scolpiti da artisti di cui abbiamo perso nome ma non memoria, giardini dalla conturbante perfezione, quelli progettati da Musō Soseki per la meditazione e il riposo dei monaci e altri ancora si affastellano nella mia mente come tante tessere di un mosaico che sembra impossibile da terminare.
Vorrei raccontare tutto questo a chi accompagno in questo viaggio, lo faccio, potrei farlo, sì, lo faccio. Vorrei presentare questa bellezza e scoprire insieme a loro tutti i tesori che nascondono queste stradine assolate, questi padiglioni venerabili.
Ma accade ogni volta come una sorta di risveglio. Ogni volta mi risveglio alla resistibile bruttezza di Kyōto. Quelle gallerie commerciali timidamente sfacciate, piene di paccottiglia senza l’audacia di novità, un po’ ritrose, appunto. E che pure nascondono librerie antiquarie, gallerie, luoghi rari di tesori. E templi, ed altari. Come soffocati da una bruttezza incombente e inevitabile. Quegli edifici moderni ma non avveniristici (fatto salvo per la stazione, incongruente nel contesto urbano che la ospita, d’accordo, ma affascinante), un po’ slabbrati, un po’ fané, quelle viuzze senza neppure il fascino del piccolo sobborgo urbano (che è invece la grande bellezza di Tōkyō) e, soprattutto, il traffico che regna sovrano nelle arterie principali. Ogni volta mi sento respinta. Ogni volta mi sento un po’ tradita.
Anche in questo viaggio.
Non importa. Ritornerò. Sarà per la prossima volta.