Cronache da un Giappone passato. Rileggendo (ancora) Nicolas Bouvier. Tokyo 1955. Parte seconda.

Come se il tempo si fosse fermato. Fine state a Yanaka. Tokyo, 2013.

 

Tokyo, 2 ottobre 1955 

 

Dalla chiesa russa, la città scendeva. Lasciandomi guidare dalla discesa e dalla stanchezza, verso le undici di sera mi sono trovato nel piccolo quartiere di Sarugadai, immerso in un profumo di caffè tostato e di spiedini alla griglia. Strade strette riempite di famiglie coi bambini addormentati in braccio, lampioni, insegne luminose, carretti illuminati ad acetilene dove si svendevano a gran voce dei cotonati di ultima scelta, stivali di gomma, giocattoli di bambù o di plastica. Sui due lati della  strada, delle casse di rifiuti scollate vomitavano il loro contenuto sul marciapiede. Un bar dopo l’altro. E tutto questo era piccolo, grazioso, come se fosse stato messo insieme alla meno peggio il giorno prima coi resti di una città più grande.

Avevo fame, ho spinto la porta su cui si leggeva Café-Bar Shi Shi – mi hanno spiegato – vuol dire poesia. La cosa non mi ha per niente stupito: nella mia passeggiata mi ero già imbattuto in due tea-room Rilke, uno snack François Villon, un bigliardo Rimbaud e un negozio Julien Sorel (biancheria provocante). Qui hanno gusti raffinati. Nel locale, non più grande di una roulotte, mi ha appena sorpreso di trovare tre incisioni di Daumier e di sentire la musica di Ravel uscire da un vecchio giradischi. Una cameriera lillipuziana, ben curata e prosperosa, “fatta” dalle unghie alle ciglia, autentica come una rosa di carta. Una clientela di liceali coi piedi nudi in zoccoli di legno, divisa nera, berretto nero, che leggevano lentamente sillabando, immersi nei loro neri manuali, lottando contro il sonno. Ho avuto solo il tempo di pensare: dei seminaristi… Cechov… e mi sono addormentato su una sedia minuscola senza neppure ordinare.

Il proprietario mi ha svegliato verso l’una di notte. La sala era vuota e la luce spenta. In una mano teneva una grossa bicicletta che doveva essere rimasta nascosta dietro il bancone, e nell’altra un bicchiere di latte che mi ha messo davanti. Aveva un aspetto giovane e timido. “Mi chiamo Shoji, ha detto in un inglese impreciso, ingegnere disoccupato e titolare del bar in attesa di trovare lavoro. Se vuole dormire su un tavolo, si accomodi pure. Io me ne torno a casa, ho due ore di strada da fare in bicicletta. La toilette è di fianco al bancone. Ci vediamo domani.” Se n’è andato chiudendo la porta.

Ogni tanto, un ritardatario rientrava dai bagni pubblici e sentivo il canto dei sandali di legno accordati alla terza – fa, re, fa re – crescere e calare nella viuzza.

In attesa di riprendere sonno ho scorso il giornale della sera che avevo comprato durante la passeggiata: alcuni articoli cominciavano ancora con: “Noi Giapponesi non sappiamo fare questo… Dovremmo piuttosto ispirarci a… Dobbiamo correggere questo difetto nazionale”, etc., ma si capiva che non c’era più la stessa convinzione di una volta e che il tempo dei peccavi era passato; diverse notizie di cronaca su degli evasi tornati dalla Russia, su tutta quella gente che viveva ancora di fortune insperate, di astuzie, di truffe ingegnose sotto falsa identità o con impieghi abusivi. Ma quei rischi, quegli imprevisti, quelle esistenze picaresche davano aria nuova alle idee e creavano un clima aperto e vitale. Si aveva l’impressione che molte delle vecchie imposture erano andate in frantumi con la sconfitta e non avevano ancora rimesso le radici. Gli annunci di scolari giapponesi alla ricerca di francobolli da scambiare o di pen-friends occupavano un’intera pagina. La raccolta del riso del 1955 aveva battuto tutti i record. La vita era ancora difficile, ma il “miracolo economico” iniziava già a distribuire gli utili e il Giappone tornava a sperare nel proprio futuro.

Mi misi a guardare i pacchetti di sigarette accuratamente allineati sotto il bar: si chiamavano “Peace”, “Love”, “Sincerità”, “Perla”, “Vita nuova”. Forse era un bel momento per venire qui.

 

Nicolas  Bouvier

  • Da Il suono di una mano sola. Cronache giapponesi, tr. di Paola Olivi e Beppe Sebaste, Reggio Emilia: Diabasis, 1999 (Chronique japonaise, Losanna: Payot 1975).
Asakusa, le stesse strade di allora. Tokyo, estate 1998.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *