Cronache da un Giappone passato. Rileggendo (ancora) Nicolas Bouvier. Tokyo 1955. Parte prima.

 

Tokyo. Yanaka, oggi come ieri. Estate 2013.

 

Tokyo. 2 ottobre 1955 

 

“Sarà dura, molto dura, le cose non si faranno da sole” mi dicevano con piccole inclinazioni del busto che non mi sembravano né comiche né ossequiose – lo sa lei veramente che vita facciamo qui?

Dura? Qui almeno c’era fresco. Avevo passato otto mesi sotto i tropici, confinato dal caldo e dalla malaria in una locanda tarlata che le termiti trasformavano rumorosamente in segatura. L’aria di Yokohama si mandava giù come champagne.

Non sapevo bene – ed è meglio così – che cosa aspettarmi dal paese.

Quanto alle mie conoscenze, erano troppo sommarie per essermi di intralcio. 

[…]

Sono sbarcato, ho consegnato i bagagli al “Tokyo Central” e sono partito senza una meta in quella città infinita, lo spazzolino da denti in tasca. Ero felice di camminare per i lunghi viali rinfrescati dal vento guardando i volti della gente. Ogni donna sembrava lavata di fresco, ogni passante sembrava incamminarsi verso una destinazione precisa, ogni lavoratore era al lavoro e dappertutto c’erano negozianti che per pochi yen offrivano un caffè buono e forte: piccoli miracoli ai quali, dopo due anni di Asia, avevo smesso di credere.

Alla Tokyo Central Station le panche della sala d’aspetto non sono niente male. Avevo dodici dollari in tasca: abbastanza da cavarmela per andare avanti un po’. Ho fatto per curiosità il giro degli hotel western stile per sapere a quante notti di pernottamento mi dava diritto il mio capitale: una e mezzo al Dai-Ichi, pieno di GI’s* dai capelli rossi, coi polsi duri come ceppi; una e un quarto al Prince Hotel; una appena all’Imperial, costruito da Frank Lloyd Wright in stile inca o “Atlantide” su fondamenta scorrevoli che avevano resistito al terremoto del 1923. E quasi una settimana nelle locande giapponesi a nord della stazione, con stuoie e pannelli di carta pergamenata, a seicento yen al giorno. Era ancora troppo.

Quel pomeriggio ho percorso venti buoni chilometri a caso per la città. L’aria era deliziosa. Ho visitato di passaggio una mostra di fotografie giapponesi di gusto così severo che non c’era più niente che si muoveva. Ho guardato le macchine dei vigili del fuoco passare a tutta velocità nei turbinii di foglie morte. Le loro campane di bronzo suonavano a tutta forza come se annunciassero una festa, grappoli di omini neri e rossi aggrappati alle scale e protetti da caschi simili a quelli dei guerrieri di Gengis Khan. Mi sono riposato ai piedi di una chiesa russa ascoltando dei cori abbastanza numerosi e veementi da poter assolvere la città intera. Quei viali disposti a caso, quei depositi, quelle librerie scure di gente, quella marea di giardinetti, di casette irregolari che si scontravano con un canale d’acqua stagnante, contro un blocco di palazzi ultramoderni, contro una massicciata della ferrovia… Dopo otto ore di marcia mi chiedevo ancora se tutto questo faceva una bella città, o anche solo una città. Poi il sole è calato gonfiandosi in un cielo arancione, disegnando in controluce il profilo insolito di tetti, la folle scrittura delle antenne, dei fili elettrici e dei palloni pubblicitari su un orizzonte che virava al rosso, poi la pioggia multicolore dei neon. Ho smesso di farmi domande. 

Nicolas Bouvier

 

  • Da Il suono di una mano sola. Cronache giapponesi, tr. di Paola Olivi e Beppe Sebaste, Reggio Emilia: Diabasis, 1999 (Chronique japonaise, Losanna: Payot 1975).
 * GI: così venivano chiamati i soldati statunitensi delle forze di occupazione del Giappone.
Tokyo. A Ochanomizu, la cupola russa di San Nicolai. Estate 2013.

 

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