Una bella notizia: la carta giapponese prodotta artigianalmente, il washi 和紙, è entrata a far parte del Patrimonio culturale dell’Umanità dell’Unesco.
Può essere finalmente un’occasione per conoscere meglio questo prodotto straordinario e, anche, come consiglia l’amica Graziana Canova Tura in una lettera indirizzata ai soci dell’Aistugia, Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi, per smetterla di utilizzare l’errata definizione “carta di riso” (entrata comunemente e facilmente in uso a partire dal dopoguerra e c’è sempre da chiedersi perché mai gli errori tendano a perpetuarsi così agevolmente…). Perché, lo ribadiamo, il washi si fabbrica con la fibra di svariate piante e arbusti, ma non con il riso!
Scrive Graziana Canova Tura: “Tutti sappiamo che la carta giapponese si produce con le fibre di arbusti vari, tra i più noti il gelso da carta, kōzo (Broussonetia kazinoki), ganpi e mitsumata (entrambi del genere Edgeworthia). Almeno noi dovremmo usare la definizione esatta ‘carta giapponese (washi)‘ e cercare di non contribuire alla diffusione di una delle tante imprecisioni che circolano sul Giappone e sulla sua cultura.”
Sottoscrivo e vi propongo qui un testo scritto per il catalogo di una mostra tenutasi a Milano nella scorsa primavera proprio sul washi...
Washi, una tradizione che sfida il tempo.
La carta giapponese, washi, ha una tradizione di splendore alle spalle che sfida il tempo.
La sua lunga storia è la storia di un’arte antica, se diamo credito alla leggenda che vuole che sia stato il monaco buddhista coreano Donchō a introdurla in Giappone, attorno al 610. Ma è ipotizzabile che nell’arcipelago esistesse già una fabbricazione di carta prodotta dalla corteccia di alberi. Certo è che la produzione e l’utilizzo della carta si diffuse ben presto, così come il suo apprezzamento, ben documentato dalla presenza di oltre duecento varietà di carte preziose nel tesoro dello Shōsōin di Nara. Del resto già da subito il principe reggente Shōtoku (574-622) aveva promosso la produzione di svariati tipi di carta allo scopo di diffondere i testi buddhisti.
Nel periodo Heian (794-1185) gli artigiani raggiunsero un grado di maestria nella fabbricazione della carta ineguagliato e furono in grado di produrre varietà di washi di altissima qualità, chiamate con nomi diversi a seconda della texture e del modo di fabbricazione: hanshi, suminagashi, michinokugami, shukushi, tobigumo, danshi, ecc.
In quel periodo le tecniche di fabbricazione si raffinarono sempre di più, variando la gamma cromatica e arricchendo la pasta con petali, erbe, foglie, polveri d’oro e d’argento e aggiungendo al midollo vegetale dell’incenso che preservava la carta dall’attacco degli insetti.
Presso la corte imperiale le carte pregiate erano altamente apprezzate ed entravano nel gioco dello scambio elegante di poesie waka che era alla base della vita a corte. Solo così possiamo comprendere cosa scrive Sei Shōnagon nel capitolo n° 277 del Makura no sōshi: “Quando mi sento delusa da provare rancore verso il mondo intero, così depressa da non aver più desiderio di vivere, neppure per un istante, ma di voler fuggire lontano, dove non importa, se mi capitano tra le mani semplici fogli di carta bianca e un buon pennello, cartoncini bianchi o carta di michinoku, immediatamente mi rassereno e penso che la vita valga ancora la pena di essere vissuta”. *
Nelle successive epoche Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1333-1568) la produzione di washi si intensificò, restando comunque caratteristica delle comunità contadine che vi si dedicavano nei lunghi mesi invernali. Servono infatti acqua fredda e pura e basse temperature per ammorbidire la corteccia di kōzo (Broussonetia Kazunoki, una varietà di gelso), di mitsumata (Edgeworthia papyrifera) e di più rari vegetali grezzi (come il ganpi, Lychnis coronata) utilizzati come materie prime per la produzione della carta ancor oggi.
Il procedimento è semplice ma lungo e impegnativo e ogni regione, ogni villaggio, ogni artigiano sviluppò i propri segreti di fabbricazione, le proprie tecniche, i propri tipi di washi. In questo modo l’arte del washi ha potuto attraversare le epoche e restare vivace e creare prodotti di altissima qualità.
La vitalità della tradizione del washi è data dalla molteplicità di ambiti in cui è sempre stato utilizzato. Perché in Giappone la carta non è un materiale: è una cultura.
La carta giapponese sfida infatti la nostra idea della carta come semplice supporto alla scrittura e, in seconda istanza, come materiale da disegno e poi da stampa. Nella cultura giapponese il ruolo della carta è il più vario: lanterne, shōji, ombrelli, ventagli, fogli per calligrafie, lettere, tovaglioli per la cerimonia del tè, vassoi, sono solo alcuni degli impieghi della carta in Giappone.
Non solo. La carta giapponese sfida anche la nostra idea della carta come di un materiale fragile. Il washi è straordinariamente resistente ed alcune varietà sono impossibili da strappare con le mani. Per questo si presta agli utilizzi più svariati, nella costruzione, nella decorazione, nella stampa, nell’arte e nel design. A volte dall’aspetto delicato di un pizzo, a volte leggermente assorbente, a volte liscia e sottile e capace di rifrangere la luce, la carta giapponese, il prezioso washi, rivela qualità che trasformano la nostra concezione di carta. L’aveva già capito Rembrandt, che se ne serviva spesso per le sue incisioni a puntasecca, quando riusciva a procurarlo dalla navi olandesi che provenivano dalla lontana Nagasaki. L’hanno capito gli artisti che sperimentano la resistenza del washi, arrivando a contare 22 passaggi sotto il torchio dello stampatore, senza che il foglio ne esca minimamente danneggiato. L’hanno capito architetti e designer che oggi, con il washi, creano oggetti, creano un nuovo modo di vivere lo spazio.
Così il washi, materiale duttile, resistente – prezioso frutto di un sapere artigianale vecchio di secoli ma ben vivo e capace di rinnovarsi per riproporsi costantemente come indispensabile – ancora una volta ci sfida a guardare alla tradizione giapponese per cogliere i semi della modernità, il desiderio del nuovo. Verso un nuovo splendore.
Testo pubblicato sul catalogo TuTuMu exhibition, a cura di Matsumori Shin e Ogawa Kazushige, Ōsaka, Daishinsha Inc., 2014.
* Sei Shōnagon, Note del guanciale, a cura di Lydia Origlia, Milano, SE, 1988, p. 221.
** Progetto Shin-on Hanga del maestro Matsuyama Shuhei.