Frammenti di viaggi
In un floppy disk dimenticato ho ritrovato le poche corrispondenze dal Giappone scritte per un settimanale abbiatense che, ahimé, non c’è più. Perdute in un file e ritrovate casualmente, a distanza di un decennio e dopo svariati viaggi e nuove scoperte e meraviglie, mi sembra ancora di poterle sottoscrivere, pur consapevole di una certa naiveté… Sono ricordi, e sono per voi.
1. Tra futuro e passato nella città dei canali.
dedicato a Giuliana, che un giorno finalmente riuscirà a visitare il Giappone
Se il Giappone, nell’immaginario collettivo dell’Occidente, ha oggi un unico volto, quando poi ci arrivi, ebbene, ti basta atterrare all’aeroporto del Kansai, sull’isola artificiale nel bel mezzo della baia di Ōsaka, per scoprire che – come la statua di Kannon, il Buddha della misericordia – l’Arcipelago degli Dei ha molti volti e chissà se mai riuscirai a scoprirli tutti.
L’ipertecnologia di auto guidate dal satellite e il silenzioso sfrecciare sui binari dello shinkansen (1200 km in cinque ore e mezzo), accanto ai riti di purificazione, antichi e immutabili nel tempo, alla lentezza studiata della cerimonia del tè, mentre l’ascensore più veloce del mondo ti catapulta in mezzo minuto in cima al grattacielo più alto dell’Asia…
Un Giappone che sfugge alle facili classificazioni con cui si ama tentare di definirlo in Europa o negli Stati Uniti: modernità sfrenata, sfrenato consumismo, americanizzazione spinta e una punta di pregiudizio razziale che non guasta mai (“quei musi gialli… tutti in gruppo in piazza del Duomo, tutti piccoli, copiano sempre e per giunta si assomigliano tutti!”).
Tanti i volti del Giappone che vorremmo scoprire in questo viaggio, ma che resteranno invece un mistero. In Asia, occorre umiltà.
E spesso chi ha il viso pallido e gli occhi tondi, invece, di rispetto no
n ne ha molto: ha piuttosto molta supponenza. La civiltà greco-latina, già, quella sì è “la civiltà”! Poi ti accorgi che l’Europa è solo un’appendice dell’Asia e che, se fai un rapido calcolo, la maggior parte dell’umanità sta al di là degli Urali. E forse allora stai zitto.
E così ce ne andiamo. Dai grattacieli di Ōsaka, sconfinata metropoli ingrigita dallo smog (il clima in agosto è come quello di Milano, ma con più afa e quasi 40°), con le sue autostrade che si intersecano direttamente sul mare (e intendiamo proprio letteralmente “sul mare”! miracolo dell’ingegneria civile giapponese) e dalla baia ti fanno ammirare i grattacieli arditi e spettacolari e le casette a un piano, rigorosamente in legno, che li affiancano. Così, quasi senza soluzione di continuità, scendiamo alla stazione di Kurashiki, piccola, deliziosa città nel cuore del Giappone rurale, ignorata dai rari turisti occidentali che preferiscono fermarsi a Tōkyō, a Kyōto e raramente si spingono oltre.
Se in Italia e in Europa si preferisce costruire i centri commerciali nelle periferie delle città o fuori, sulle statali trafficate ( si sa, tutti vanno a far spese in macchina!), qui – è un fatto – questa prassi non usa: tutti usano il treno, i centri commerciali si fanno nelle stazioni! Così, ti capita di uscire dalla zona dei binari e ritrovarti in un depaato (grande magazzino), senza accorgertene. Nessun problema, nessuno si scandalizzerà nel vederti passare fra i banchi con le tue valige ma tutti i commessi non mancheranno di salutarti con l’usuale benvenuto “Irasshaimase!”
Così, Kurashiki. Alla stazione e subito fuori, grandi magazzini luccicanti e il rumore assordante dei pachinko, le sale in cui si gioca tutto il giorno davanti a biliardini automatici verticali (che esistono solo qui) e a cui non si vince mai nulla se non altre biglie da giocare o da scambiare con cioccolatini, dolcetti, caramelle. Le sale sono gestite dalla yakuza, ma la clientela è composta di casalinghe, tranquilli pensionati, per la maggior parte gente di mezz’età dall’aspetto innocuo. La curiosità è troppa e una mia parola di troppo con la mamma della nostra amica Yasuko, venuta a prenderci alla stazione, fa scattare la proposta. Ed eccoci scaraventati dentro una sala piena di rumore, musica e fumo, per il divertimento dei commessi che subito ci liberano due macchinette per il nostro goffo tentativo. Nessuno dei giocatori ci degna di uno sguardo, non ci si può distrarre un attimo, le biglie cadono in fretta e il gioco richiede abilità e massima attenzione. Ognuno di noi due riceve un cestino pieno di biglie (costo 1.000 yen per la giocata minima),* ma basterà una manciata di secondi perché le nostre scompaiano inghiottite dalla macchinetta. Per noi un’esperienza divertente, per migliaia di persone in Giappone un passatempo sul cui ruolo sociale si sono spesi fiumi di inchiostro. Forse non sta a noi giudicare, ma ci fa riflettere che questo sia uno dei rari passatempi che i giapponesi si concedono da soli, lontani da un gruppo (la dimensione comunitaria è “la”dimensione” della società giapponese).
Due isolati più in là, voltato un angolo, un altro mondo. Davanti a noi una città diversa, un’epoca diversa, un altro Giappone. Canali sulle cui acque si specchiano salici e lanterne di pietra, attraversati da delicati ponti a gobba di cammello, rive su cui la gente passeggia pigramente, ammirando gli splendidi colori delle carpe preziose che nuotano in queste acque. Le squame d’oro, o dalle più varie sfumature del blu, del rosso, dell’arancio, del nero sono una festa per gli occhi. E sulle rive, prospettive di case di legno tradizionali, antiche, dall’aspetto quasi modesto, ma che spesso nascondono lussuosi ryōkan (alberghi tradizionali), dall’arredamento raffinato e prezioso, perché qui la ricchezza non la si ostenta. E la bellezza si rivela a poco a poco, a chi ha la pazienza di cercare. Una bellezza che è sobrietà, è la consapevolezza dello scorrere del tempo che deposita sugli oggetti la sua patina, è raffinata semplicità.
Ne avremo una prova domani, quando visiteremo un laboratorio di kimono (celebre e di antica tradizione: lo Hashimaya), in una casa di legno del secolo scorso, sopravvissuta a tanti incendi, abitata da una vecchina gentile che ci accoglie con un inchino e ci mostra il giardiniere che arrampicato su un pino contorto, si accinge a potarlo. Ci vorrà una settimana, per un solo albero. Ci metterà un mese a finire il giardino, dice sorridendo. Sono i tempi del Giappone, terra in cui il futuro ha un cuore antico.
Settembre 1998
* 8 euro circa al cambio di oggi.