Onna: donne giapponesi, passioni giapponesi. 7: Ōta Yōko, che sopravvisse a Hiroshima.

In questa nuova stagione voglio ricordare le donne giapponesi. Un profilo alla settimana. Dedicato a noi.

Un'immagine dal libro Watashi no Hiroshima (My Hiroshima) di Morimoto Junko.

Non so che volto abbia avuto Ōta Yōko: anche cercando scrupolosamente sul web, non sono riuscita a trovarne.

Ma il suo nome mi ritorna in mente, in questo giorno di anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima. Ōta Yōko era nata nel 1906 in un villaggio nei dintorni di Hiroshima, in una famiglia di proprietari terrieri di provincia, ma dopo il divorzio dei genitori era stata data in adozione e in seguito era tornata a vivere con la madre, prima a Tōkyō e poi di nuovo a Hiroshima, dopo la distruzione della capitale in seguito al bombardamento “convenzionale” del marzo 1945.

A partire dal 1929 aveva iniziato a scrivere racconti e a collaborare con varie riviste fra cui Nyonin Geijutsu (L’arte delle donne). Nel frattempo, per mantenersi, aveva fatto molti mestieri (giornalista, cameriera, impiegata).

Ma il bombardamento di Hiroshima è l’evento drammatico che condizionerà i successivi 18 anni della vita della scrittrice, facendole perdere ogni punto di riferimento e costringendo lei, sopravvissuta, al “dovere della testimonianza”. Da subito Yōko sente questo imperativo, nell’urgenza dettata dalla paura di essere presto preda della malattia da radiazioni e per evitare che il tempo cancelli la memoria di ciò che è accaduto. Scrive Ito Narihiko che rispondendo alla sorella che le chiedeva come poteva guardare i morti e cosa avrebbe scritto, la scrittrice spiegò: “Guardo i cadaveri con gli occhi di un essere umano e di uno scrittore, che ha la responsabilità di informare gli altri di ciò che ha conosciuto da vicino”.

Ōta Yōko appartiene quindi a quella prima generazione di scrittori della “letteratura della bomba” (genbaku bungaku) che sono sia vittime che testimoni e che vivono la lacerante difficoltà di conciliare finzione e memoria. Ecco perché Ōta sente come inadeguati gli strumenti fino ad allora utilizzati. Per raccontare l’indicibile orrore ogni parola, ogni stile, tutto sembra inadeguato:

Il bombardamento atomico di Hiroshima è al di fuori della categoria di letteratura. […] Nella narrativa ordinaria ci sono modelli e categorie – letteratura per ragazzi, storie romantiche e così via. Ma non c’è modello né categoria per l’esperienza della bomba atomica. L’esperienza fu così forte, così grande, così potente, che non si trovano parole per descriverla. […] Come soggetto per la narrativa è molto difficile. […] Non voglio scrivere storie di finzione – voglio solo scrivere della verità – descriverla com’è stata, senza esagerazioni.[…]  La narrativa è generalmente un mix di verità e menzogna. Ma io non voglio scrivere menzogne sulla bomba atomica come altri hanno fatto.”

Sotto la spinta urgente della testimonianza Ōta Yōko scrive Shikabane no machi (La città dei cadaveri) che verrà pubblicato nell’autunno del 1945 e resta uno dei testi più intensi e sconvolgenti all’interno della produzione del periodo, parzialmente sforbiciato dalla censura delle forze di occupazione. Quest’opera attribuì da subito alla Ōta l’etichetta di “scrittrice della bomba atomica”, etichetta da cui non riuscì più a liberarsi perché la scrittrice, impegnata per il resto della sua vita nel movimento per il disarmo nucleare, non riuscì mai più nelle sue opere ad affrontare altri temi che non fosse “il tema”, dovendo fronteggiare sino alla morte, avvenuta nel 1963, gli incubi e i fantasmi che la perseguitavano e che neppure l’aiuto delle droghe, di cui ormai faceva uso, riusciva a placare:

“I riverberi continuano fino a oggi. […] Ho cercato di scrivere altre opere. Ho cercato di scrivere altre opere non collegate alla bomba atomica, lavori differenti. Ma l’immagine della mia città che Hiroshima aveva marchiato sulla mia mente allontanava la visione di altre opere. […]  Ho testimoniato con i miei occhi e il mio cuore e ascoltato la gente parlare della realtà della distruzione di Hiroshima e dell’annullamento della popolazione. E quella realtà produsse la visione di un brano concreto di scrittura […]  che ha paralizzato il mio entusiasmo verso la produzione di altri generi di opere.”

Nessuna delle opere di Ōta Yōko è stata tradotta in italiano.

Shikabane no machi è stato tradotto in inglese ed è contenuto nel volume: 

Richard H. Minear (a cura di ), Hiroshima: Three Witnesses, Princeton University Press, 1990.

Sulla genbaku bungaku è possibile leggere: 

John Whittier Treat, Writing Ground Zero: Japanese Literature and the Atomic Bomb, Chicago University Press, 1996.

 

La campana buddhista nel Parco della pace di Hiroshima. Nostro primo viaggio, settembre 1998.