Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Rosso tramonto.

Okuhara Seiko (1837-1913), Corvo su un ramo di salice, 1900-1910 circa.

 

Il tramonto è splendido.

Il tramonto è splendido e brucia, rosso, in modo inquietante. Non ho mai visto prima d’ora un tramonto così bello. Le nuvole che mi accompagnano mentre cammino, allungate come una fascia sopra la città, cominciano a risplendere, quasi fossero in fiamme. È rosso com se nel cielo scorresse il sangue che ho dentro di me. Anche nell’aria fluttua un odore di cose bruciate. No, non è che la città stia bruciando. È lì, rumorosa, come sempre nell’ora del tramonto. La gente esce a far compere; è il momento della giornata in cui, ferme davanti a mercato o agli angoli delle strade, le comari non si stancano di chiacchierare. La città sta per immergersi nel buio e le zone d’ombra alle quali non giunge la luce, appaiono oscure, grigie come la cenere. Non passo davanti al mercato. Sua madre dev’essere uscita a fare la spesa e non voglio che mi veda. Desidero passeggiare sola; e poi, che noia l’idea di andare a far compere! Io ho da fare. Ho sempre delle cose a cui pensare. Oggi torna lui.

Il cielo è in fiamme.

Quasi come un segno premonitore il cielo è tutto in fiamme. Ma non è un presagio, non è altro che un tramonto. Però il cielo, oggi, è particolarmente sereno. E rosso come non è mai stato. È la prima volta in vita mia che lo vedo così. Cammino veloce. Devo camminare. Vado sulla collina deserta che si trova in fondo a questa grande strada. Vado là, non al mercato. La spesa la può fare sua madre. Io non ne ho proprio voglia. Vado sulla collina. A cercare qualcosa, a pensare a qualche cosa. A cosa? L’ho già dimenticato. Oggi torna lui. Sua madre sarà contenta. Io non sono né felice né triste. Ho ormai dimenticato che cosa sia la felicità. Ho abbandonato in qualche posto i miei sentimenti. Ma no, li ho lasciati a casa. La mia casa, dove lui vive con sua madre e anche con me; una piccolissima clinica di una città di provincia dalla quale straripa una massa di sentimenti compressi. Però i miei sentimenti non sono lì. Quelli che vi si trovano sono quelli di sua madre, di lui, delle infermiere. Ed io invece sono in uno spazio che non è il loro, isolata da una cortina trasparente.

L’incendio non finisce.

L’incendio non finisce neppure col passare del tempo. Si ode ininterrotto il suono della sirena del carro dei pompieri. Le nuvole che continuano a bruciare ricadono come faville. E si dissolvono non appena toccano la cortina trasparente che mi sta intorno. Chissà perché continua a fiammeggiare così. Non starà per accadere qualcosa di eccezionale, di tremendo? Dall’alto della collina si vede il cielo che brucia rosseggiando; la pianura quasi secca scolora in un grigio cenere e le foglie delle querce tremano, all’unisono, nel vento. Che pianura sconfinata. La strada, diritta, si allontana, si allontana. Se la si seguisse fino in fondo si arriverebbe ai confini settentrionali della terra. All paese delle nevi nel quale non vive un solo essere umano e dove orsi, volpi, conigli e corvi sono incontrastati padroni. Una volta anch’io avevo desiderato di andarci. Una volta, ma quando?

Tu ormai non puoi più andarci.

Io non andrò più al paese delle nevi, su, all’estremo nord. Dopo che nel mio cuore qualcosa è morto, quel lontano paese si è dissolto nel nulla e attorno a me è calata una cortina. Questo nessuno lo capisce, è una cosa che neppure lui comprende. Le foglie delle querce frusciano al vento, ormai freddo. E malgrado ciò il cielo continua a fiammeggiare. Non succederà qualche cosa di strano?

È meglio che torni a casa.

È vero, devo tornare subito a casa! Sua madre avrà ormai finito di far la spesa e, se sapesse che sono uscita, si preoccuperebbe, facendomi poi mille domande. Mi sono allontanata troppo. Lui mi portò qui una volta e mi disse: “Guarda che bel panorama. Si vede la città e, lontano, si intravvedono anche le montagne. Sono già coperte di neve. E si vede anche la pianura. Anticamente, qui, era tutto ricoperto da foreste impenetrabili, e ci vivevano gli orsi”. Così mi raccontava. E diceva pure che sin da piccolo veniva spesso su questa collina. È stato lui a portarmi qui. E ora mi sento come se fosse la prima volta che sono qui sola. Chissà perché ho fatto una cosa simile.

Chissà perché.

Chissà perché le foglie delle querce stormiscono così. Chissà perché le mie mani sono così fredde, e la fonte così ardente. Chissà perché questa strada così diritta – dove non passa anima viva – porta fino a quella catena di monti. Sembra proprio che mi stiano chiamando. Chissà perché le nuvole in cielo continuano a bruciare come faville.

Chissà perché io sono qui, sola.

 

Fukunaga Takehiko

(1918-1979)

Traduzione di Graziana Canova.

Da: La fine del mondo (Sekai no owari, 1959),

a cura di Katō Shūichi, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 31-34.

 

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Una spirale di inquietudine avvolge la protagonista di questo racconto, bello e disperato, di Fukunaga, una delle voci più intense della narrativa giapponese della seconda metà del XX secolo. Il cammino allucinato di Tami attraverso un susseguirsi di sentimenti cangianti su cui aleggia il senso della fine è reso attraverso uno stile dall’andamento ipnotico, che muta – dal flusso di coscienza alla narrazione oggettiva, al monologo interiore – con il mutare dell’animo della protagonista, in un arduo esercizio di stile che Graziana Canova ha saputo tradurre magistralmente. Un libro, e un autore, da conoscere.