Una primavera, un viaggio. Hiroshima.

 

Davanti a noi, a Hiroshima. 28 marzo 2013.

 

La passeggiata serale nel Parco della Pace. I ciliegi ci sorprendono lungo il fiume Ota. Simbolo di rinascita: sì, lo sapevamo, ma vederli qui, proprio qui, davanti ai nostri occhi, è diverso.

I ciliegi e la loro sfolgorante bellezza sopra e, sotto, l’orrore di corpi bruciati, annientati, l’orrore di una città dalle macerie polverizzate. Aveva ragione Issa due secoli fa. Sotto i fiori è l’inferno. Ma sopra all’inferno, appunto, contempliamo i fiori.

Sento che qui l’uomo ha perso e che qui l’uomo ha vinto. Ha saputo e voluto, tenacemente, disperatamente vincere e sopravvivere. Che infine la vita ha vinto, nonostante se stessa.

La luna è velata, su Hiroshima, e avvolta drammaticamente dalle nubi. Il vento gelido ci sferza. Eppur non sappiamo resistere alla bellezza struggente di questa sera. Dopo l’orrore dei corpi straziati dalle cheloidi, in foto insostenibili ma necessarie, al museo, i ciliegi si rivelano al nostro sguardo come una presenza di consolazione e accoglienza. Non la bellezza fredda e altera dei rododendri che vedremo poi in altri giardini. Quella dei ciliegi, così fragile, spazzata com’è dal vento freddo che già ne disperde i petali, mi sembra piena di compassione verso le nostre miserie.

Poi una cena in un piccolo locale dove entriamo, avvolto dai fumi della piastra dell’okonomiyaki e nascosto al primo piano, sotto una galleria, ci restituisce alla città, alla luna, alla notte con rinnovata speranza.

Non so se è così anche per i compagni di questo viaggio (“Sarà così anche per loro?” mi chiedo continuamente, in questi giorni).  Proprio non so. Ma io sento che ancora una volta occorre ascoltare la lezione di Hiroshima. Ancora e ancora. Ricordo le parole di Ōe, ricordo la sua testimonianza.

E nel rispetto e nel ricordo, questa lezione è sempre con me.