Altri amori: Stig Dagerman e il nostro bisogno di consolazione.

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Esiste un gruppo che non mi stanco di ascoltare. Mi emoziona e mi costringe a riflettere, sul mondo, sugli individui, e anche su di me. Têtes Raides è certo: vi amo!

E quanto vi amo di più ora, che avete suscitato in me una passione intellettuale forte. Inaspettata come un dono. È Stig Dagerman questa passione, è quel testo scandito dalla voce di Christian Olivier come un rap ipnotico, è  Notre besoin de consolation est impossibile à rassasier che il caso ha portato sui miei passi. È un testo che appare a prima vista coraggiosamente fuori moda, ma è un testo, invece, tenacemente coinvolgente. Lo è per me. Qui, ora, in questi giorni, in questo tempo.

Ma non sarò certo l’unica anche se, come recita un haiku che amo “lo intende solo chi intende”.


Stig Dagerman (1923-1954), scrittore e giornalista svedese, lo ha scritto nel 1952. Aveva 29 anni.

L’album dei T.R.ha per titolo Banco ed è del 2007. Il testo è stato tradotto in francese da Actes Sud, nel 1981 e in italiano da Iperborea, nel 1991. Io lo leggo solo ora, nel 2011.

Non so lo svedese e non potrei del resto che tradurlo dalla versione che, prima di aver letto, ho ascoltato, ripetutamente, come un mantra, perché è attraverso l’interpretazione delle “mie” Têtes Raides che ho imparato ad amarlo.

Così lo traduco dal francese, per qualche amico che, forse, potrà sentirsi toccato, e in profondità, e che, quindi, sentirò come eguale.



Il nostro bisogno di consolazione è impossibile da saziare


Sono privo di fede e non posso dunque essere felice, poiché un uomo che rischia di temere che la sua vita sia un’erranza assurda verso una morte certa non può essere felice. Non ho ricevuto in eredità né un dio né un punto fermo sulla terra da cui possa attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il furore ben celato dello scettico, le astuzie sottili del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare alcuna pietra su colei che crede in cose che non mi ispirano che il dubbio  o su colui che venera il suo dubbio come se non fosse egli stesso circondato dalle tenebre. Questa pietra colpirebbe me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo è impossibile da saziare.

Per quel che mi riguarda, cerco la consolazione come il cacciatore bracca la preda. Dovunque io creda di scorgerla nella foresta, tiro. Spesso non raggiungo che il vuoto ma, a volte, una preda cade ai miei piedi. E, poiché so che la consolazione non dura che il tempo di un soffio di vento sulla cima di una albero, mi affretto ad appropriarmi della mia vittima.

Cosa stringo allora tra le braccia?

Poiché sono solitario: una donna amata o un infelice compagno di strada. Poiché sono poeta: un arco di parole che tendo sentendomi pervadere di gioia e di spavento. Poiché sono prigioniero: un spiraglio improvviso di libertà. Poiché sono minacciato dalla morte: un animale caldo e vivo, un cuore che batte irridente. Poiché sono minacciato dal mare: uno scoglio d’inamovibile granito.

Ma ci sono delle consolazioni che vengono a me senza essere invitate e che riempiono la mia camera di mormorii odiosi: “Io sono il tuo piacere: amali tutti! Io sono il tuo talento: fanne cattivo uso quanto di te stesso! Io sono il tuo desiderio di godimento: che vivano solo i buongustai!  Io sono la tua solitudine: disprezza gli uomini! Io sono la tua aspirazione alla morte: allora tronca!”

Il filo del rasoio è ben stretto. Vedo la mia vita minacciata da due pericoli: dalle bocche avide della golosità da un lato e, dall’altro, dall’amarezza dell’avarizia che si  nutre di se stessa. Ma tengo a rifiutare di scegliere tra l’orgia e l’ascesi, anche se devo a causa di questo subire il supplizio della griglia dei miei desideri. Per me, non basta sapere che, poiché non siamo liberi dei nostri atti, tutto è scusabile. Ciò che cerco, non è una scusa alla mia vita ma esattamente il contrario di una scusa: il perdono. In effetti, quando la mia disperazione mi dice: “Disperati, perché ogni giorno non è che una tregua fra due notti”, la falsa consolazione mi grida: “Spera, perché ogni notte non è che una tregua tra due giorni.”

Ma l’umanità non sa che farsene di una consolazione in forma di motto di spirito: essa ha bisogno di una consolazione che illumini. E colui che si augura di diventare malvagio, cioè di diventare un uomo che agisca come se ogni azione fosse difendibile, deve almeno avere la bontà di farlo notare quando vi riesce.

Nessuno può elencare tutti i casi in cui la consolazione è una necessità. Nessuno sa quando cadrà il crepuscolo e la vita non è un problema che possa essere risolto separando la luce dall’oscurità e i giorni dalle notti. E’un viaggio imprevedibile fra due luoghi che non esistono. Posso, per esempio, camminare sulla riva e sentire d’improvviso la sfida spaventosa che l’eternità lancia alla mia esistenza nel movimento perpetuo del mare e nella fuga perpetua del vento. Che diventa allora il tempo, se non una consolazione per il fatto che niente di ciò che è umano dura. […]

Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che possa immaginare il mio cervello. Dato che desidero assicurarmi che la mia vita non sia assurda e che io non sia solo sulla terra, raccolgo tutte le parole in un libro e lo offro al mondo. In cambio questo mi dà ricchezza, la fama e il silenzio. Ma che posso farmene di questo denaro e che piacere può darmi contribuire al progresso della letteratura? Non desidero che ciò che non avrò: la conferma che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Che diventa allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la solitudine con intensità cinque volte maggiore! […]

Non possiedo filosofia nella quale possa muovermi come il pesce nell’acqua o l’uccello nel cielo. Tutto ciò che possiedo è un duello, e questo duello si libera, a ogni attimo della mia vita, fra le false consolazioni, che non fanno che accrescere la mia impotenza e rendere più profonda la mia disperazione, e quelle vere, che mi portano verso una liberazione temporanea. Dovrei forse dire: la vera perché, in verità, non esiste per me che una sola consolazione che sia reale, quella che mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, un essere sovrano all’interno dei miei limiti.

Ma la libertà comincia dalla schiavitù e la sovranità dalla dipendenza. Il segno più certo della mia servitù è la mia paura di vivere. Il segno definitivo della mia libertà è il fatto che la mia paura lascia libero campo alla gioia tranquilla dell’indipendenza. Si direbbe che ho bisogno della dipendenza per poter finalmente conoscere la consolazione d’essere un uomo libero, ed è certamente vero. Alla luce dei miei atti, mi accorgo che tutta la mia vita sembra non avere avuto per scopo che di fare la mia stessa infelicità. Ciò che dovrebbe portarmi la libertà mi porta la schiavitù e le pietre al posto del pane.

Uomini diversi hanno padroni diversi. Io, per esempio, sono a tal punto schiavo del mio talento che non ho il coraggio di farne uso per timore d’averlo perso. Sono poi così schiavo del mio nome da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine giunge la depressione, sono schiavo anche di quella. Il mio più grande desiderio diventa quello di trattenerla, il mio più grande piacere è sentire che il mio unico valore stava in ciò che credo di aver perduto: la capacità di creare bellezza a partire dalla mia disperazione, dal mio disgusto e dalle mie debolezze. Con gioia amara voglio vedere le mie case crollare e me stesso sepolto sotto la neve dell’oblio. Ma la depressione è una bambola russa e dentro all’ultima sono riposti un coltello, una lametta da barba, del veleno, un’acqua profonda e un salto da una grande altezza. Finisco per essere schiavo di tutti questi strumenti di morte. Mi seguono come cani, o sono io a seguirli come un cane. E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana.

Ma, giungendo da una direzione che ancora non sospetto, ecco che si avvicina il miracolo della liberazione. Ciò può verificarsi sulla riva e la stessa eternità che, poco fa, suscitava il mio spavento è ora testimone del mio accesso alla libertà. In che consiste, dunque, questo miracolo? Semplicemente nella scoperta improvvisa che nessuno, nessuna potenza, nessun essere umano, ha il diritto di esprimere nei miei confronti esigenze tali che il mio desiderio di vivere ne sia indebolito. Perché se il desiderio non esiste, chi allora può esistere?

Poichè mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le imbarcazioni o dal vento che gonfi costantemente tutte le vele. Allo stesso modo, nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita consista nell’essere prigioniero di certe funzioni. Per me, non si tratta del dovere prima di tutto: prima di tutto è la vita. Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere anche un’unità autonoma.

Solo momenti così posso essere libero davanti a tutte quelle consapevolezze sulla vita che, prima, hanno causato la mia disperazione. Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi chiede a me di curarmi dell’eternità? La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del tempo. Le possibilità della mia vita sono limitate solo se faccio il conto della quantità di parole o di libri che avrò il tempo di produrre prima della mia morte. Ma chi mi chiede di fare questo conto? Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perché tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita.

Ma tutto quel che mi accade di importante, tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel momento del bisogno, lo spettacolo del chiaro di luna, una gita in barca a vela sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza – tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Perché poco importa che io incontri la bellezza per un secondo o nello spazio di cent’anni. Non solo la felicità si situa ai margini del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita.

Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma qualcosa che cresce e cerca di raggiungere la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni: ciò che è perfetto opera in stato di quiete. È assurdo sostenere che il mare esista per sorreggere flotte e delfini. Certo, lo fa, ma conservando la sua libertà. Ed è altrettanto assurdo affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere. Certo, egli alimenta macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che faccia quel che fa mantenendo la propria libertà e con la chiara coscienza di avere in sé – come ogni altro dettaglio della creazione – il proprio fine. Egli riposa in se stesso come un ciottolo sulla sabbia.

Posso anche affrancarmi dal potere della morte. Certo, non potrò mai liberarmi dal pensiero che la morte segue i miei passi, e tanto meno negare la sua realtà. Ma posso ridurre la minaccia fino ad annullarla non ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto precari come il tempo e la fama.

Per contro, non è in mio potere di restare in eterno rivolto verso il mare e comparare la sua libertà con la mia. Arriverà il momento in cui dovrò rivolgermi verso la terra e affrontare gli organizzatori dell’oppressione di cui sono vittima. Ciò che sarò allora costretto a riconoscere, è che l’uomo ha dato alla sua vita delle forme che, almeno in apparenza, sono più forti di lui. Anche con la mia libertà così recente non le posso rompere, non posso che sospirare sotto il loro peso. Per contro, fra le esigenze che pesano sull’uomo, posso vedere quali sono assurde e quali sono ineluttabili. Secondo me, una specie di libertà è persa per sempre o a lungo. È la libertà che viene dalla capacità di possedere il proprio elemento. Il pesce possiede il suo, così come l’uccello o l’animale terrestre. Thoreau aveva ancora la foresta di Walden – ma dov’è ora la foresta nella quale l’essere umano possa provare che è possibile vivere in libertà al di fuori delle rigide forme della società?

Sono obbligato a rispondere: da nessuna parte. Se voglio vivere libero, occorre per il momento che lo faccia all’interno di queste forme. Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho nulla da opporre se non me stesso – ma, d’altro canto, questo non è poco. Poiché, fintanto che non mi lascio schiacciare dalla quantità, anch’io sono una potenza. E il mio potere è temibile fintanto che io posso opporre la forza delle mie parole a quella del mondo, perché colui che costruisce prigioni si esprime meno bene di colui che costruisce la libertà.  Ma la mia potenza non conoscerà più limiti il giorno in cui non avrò che il silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché nessuna ascia può intaccare il silenzio vivente.

Questa è la mia sola consolazione. So che le ricadute nella disperazione saranno numerose e profonde, ma il ricordo del miracolo della liberazione mi porta come un’ala verso una meta che mi dà la vertigine: una consolazione che sia più di una consolazione e più grande di una filosofia, cioè: una ragione di vivere.



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